“Ho la sensazione che il gioco sia sempre meno una fuga dalla realtà e sempre più un tentativo di trasformare la realtà, di agire sulla realtà in modo se vogliamo radicale, tentando di sovvertirne alcune regole sistemiche e strutturali che ci opprimono come persone LGBTQIA+”. Così Natascia Maesi, presidente nazionale di Arcigay, ha iniziato il suo intervento nel panel di apertura del festival IN/VISIBILЗ – elaborazioni intersezionali per il mondo ludico, organizzato il 13 e 14 aprile a Firenze da Daniele Bonaiuti, Mario Di Bernardo, Stefano Di Bernardo, Marco Spelgatti, Mattia Belletti, Letizia Vaccarella e Maura Saccà.
Nel 2023 Gay.it ha premiato la prima edizione di IN/VISIBILЗ come miglior evento dedicato al rapporto tra giochi e comunità LGBTQIA+. La seconda edizione del festival ha ulteriormente espanso la discussione in quell’ottica intersezionale che vede varie lotte e varie discipline incrociarsi e collaborare, e infatti il suo tema è stato “contaminazioni”.
Immagine per gentile concessione di IN/VISIBILЗ.
“La dimensione del gioco sta prendendo molto piede in Arcigay” ha notato Maesi, che ha discusso insieme alla critica videoludica Giulia Martino e alla ricercatrice transdisciplinare Isabella Pinto. E l’interesse delle comunità LGBTQIA+ per gioco e videogioco verrebbe dal fatto che questi ambienti, in cui certe soggettività per lungo tempo non sono state previste, stanno diventando “uno spazio di resistenza”. “Il gioco diventa un atto politico, giocare diventa un modo per allenare il pensiero divergente e le proprie pratiche queer” ha detto Maesi. Maesi parla di “pratiche queer” perché non sta parlando di queer e queerness pensando unicamente a orientamenti sessuali o identità di genere che sfuggano alle regole delle società ciseteronormate. E non sta pensando ai giochi queer meramente come giochi che abbiano personaggi appartenenti ai mondi LGBTQIA+, anzi sottolinea i limiti di questo approccio incentrato sulla rappresentazione. Un approccio che facilmente diventa un’operazione di facciata (il cosiddetto rainbow washing) da parte della grande industria.
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Riprendendo i concetti della queer theory, e citando esplicitamente la discussione su cosa sia queer fatta da Michele Murgia nel suo libro postumo Dare la vita (Rizzoli, 2024), Maesi parla di queerness non come un’identità definita ma come qualcosa che sfugge proprio all’identificazione, come “una postura, obliqua, trasversale, anche un po’ scomoda”. Queerness come insieme di pratiche che quindi, continua il ragionamento Maesi, possono essere adottate anche da chi non fa parte delle comunità LGBTQIA+ e possono essere esplorate e allenate, magari proprio attraverso il gioco, che per sua natura è costruito di meccaniche e relazioni. Il rischio è perdere il legame tra mondo LGBTQIA+ e queerness ma, ha concluso la presidente di Arcigay, “io credo che sia possibile provare a condividere questa parola, che il mondo eterocisnormato si faccia contaminare da questa queerness. O almeno me lo auguro, sennò non farei attivismo”.
Immagine per gentile concessione di IN/VISIBILЗ.
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