Vivere con Hiv: da Taranto la storia di Miki Formisano, persona trans hiv+

"La fortuna ha voluto che riuscissi a sopravvivere fino al luglio del 1996, quando andai in Aids conclamato. Nello stesso anno arrivò finalmente la prima terapia efficace".

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Vivere con Hiv: da Taranto la storia di Miki Formisano, persona trans hiv+ - miki formisano - Gay.it
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Le persone che vivono con Hiv in Italia sono circa 130.000, ma a causa dello stigma e della discriminazione nei loro confronti, i più continuano a vivere l’infezione in silenzio e nell’ombra. Sono tanti gli ambiti soggetti a discriminazione: il mondo del lavoro, il pregiudizio nella coabitazione fino allo stigma sessuale.
Per dare voce alle persone che vivono con Hiv ho intervistato tre persone con delle storie molto diverse: Miki, Danilo e Riccardo.

 

Miki Formisano

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Miki Formisano

Miki Formisano, 58 anni di Taranto.
Vive con Hiv da 37 anni.
Vice Presidente di NPS italia (Network Persone Sieropositive) e presidente di CEST (Centro Salute Trans e Gender Variant).

 

Il racconto di Miki

Cominciai a sentire parlare di Hiv negli anni in cui mi contagiai. L’Aids, all’epoca sembrava qualcosa che non ci riguardava, una cosa lontanissima, che riguardava solo l’America. Non ci apparteneva, le poche notizie che arrivavano erano come un sibilo nel silenzio generale.

All’epoca utilizzavo sostanze stupefacenti per via endovenosa, non stavo bene per niente. Non mi accettavo né riconoscevo come donna lesbica e provavo una grande sofferenza, che mi portava a distruggermi in tutti i modi. Ero una persona tossicodipendente.

Nel 1985, quando arrivò il test, decisi di farlo con leggerezza, non percepivo nessun rischio nei confronti di questa lontana infezione, che non ci riguardava. Ero seguito presso il Sert, e mi proposero di sottopormi al test. Accettai senza pensarci troppo. Quando mi diedero il risultato mi dissero: “Positivo”, una diagnosi di morte. Non riuscivo a comprendere fino in fondo che cosa fosse l’Aids. Dopo i primi momenti, cominciai a pensare che sarei morto. Pensavo: se devo morire, almeno voglio morire come voglio io.

La fortuna ha voluto che riuscissi a sopravvivere fino al luglio del 1996, quando andai in Aids conclamato. Nello stesso anno arrivò finalmente la prima terapia efficace.
Negli anni precedenti, per storie legate alla mia dipendenza, finii in carcere. Il carcere in qualche modo è stata una fortuna. Lì le cure mediche erano ai minimi termini e non mi veniva somministrata quasi mai la monoterapia con AZT, ciò ha fatto si che io non sviluppassi resistenze al farmaco.

Nel 1996 stavo davvero male, avevo varie infezioni opportunistiche e le mie difese immunitarie erano totalmente azzerate. Con la terapia, in qualche mese, mi sentivo meglio e ad una ad una le infezioni opportunistiche erano sconfitte. Erano tantissimi farmaci, ogni giorno, più volte al giorno, ma in ogni caso la mia vita stava cominciando a migliorare.

Una rinascita, se sono vivo oggi è grazie a quella terapia, che mi ha salvato la vita.
Oggi sono un uomo con carica virale non rilevabile.

Negli anni successivi continuavo a non stare bene, a devastarmi con sostanze. Continuavo a non riconoscermi e ad autodistruggermi. Non sapevo che esistessero gli uomini trans.

Quando ho cominciato a usare internet, ho capito che oltre alle donne trans c’erano anche gli uomini trans. Erano una piccola comunità nascosta, e ho intuito che forse era questa la motivazione per il quale stavo così tanto male e volevo distruggermi.
Con alcuni uomini conosciuti in rete decidemmo di incontrarci dal vivo. Ricordo che uno di loro si tolse una fascia che gli conteneva il seno, e me la porse. Mi spogliai, la indossai e mi rimisi la maglia. Appena mi guardai allo specchio, finalmente mi riconobbi. E da allora che ho rimesso assieme i pezzi.

A quel punto della mia vita ho intrapreso un percorso di affermazione di genere.
Udienze, medici, terapie: ma nonostante la fatica, questa è stata la cosa che mi ha fatto riprendere in mano tutto, amare me stesso, volermi bene, riconoscermi.
Una volta che ho coronato il sogno di me stesso, ho pensato che era necessario usare il mio bagaglio per dare una mano agli altri. Una lotta intersezionale per poter offrire una spalla ogni volta che coglievo un disagio.

Sono mancate tante persone in quegli anni. Le persone con Hiv non potevano essere toccate, vestite, e quindi oltre al trauma della perdita c’era il trauma della gestione delle incombenze, per esempio nell’organizzare un funerale. Anni davvero duri.

Contestualmente ho conosciuto Marilena, la mia compagna, stiamo insieme da 20 anni e la vita ha avuto uno stravolgimento nel modo più bello di questa parola.
Rinascita. Ho dovuto imparare cos’è andare al cinema, andare a fare un viaggio o uscire a cena fuori. Imparare di nuovo ad assaporare la vita.
Per questo cerco di essere una persona visibile: per restituire quello che mio è stato dato, soprattutto quei piccoli gesti, che sono quelli di cui nessuno parla.

Nella mia città, Taranto, per certi versi è facile essere una persona visibile. Tutti sanno ma nessuno dice nulla. Nonostante l’amore che hanno per me, a volte mi rendo conto che c’è ancora molta ignoranza, soprattutto nei piccoli eventi quotidiani di micro-discriminazione: dalla stretta di mano alle tazzine del caffè al bar. Mi capita di andare a parlare di bullismo agli adolescenti in misura alternativa presso il Centro diurno. Gli parlo di affettività e anche di salute sessuale. Sono rimasto sbigottito dal fatto che un ragazzone di 18 anni non avesse mai sentito parlare di Hiv. Non sapeva niente di niente, non conosceva nemmeno Freddy Mercury. In questo livello culturale così variegato spesso per parlare ai giovani l’unico modo è quello di inserirsi in contesti più istituzionali.

Mi scontro spesso con la fobia nei confronti della sessualità, sia per le questioni di genere che per l’Hiv. È un grosso problema trasversale nella nostra società. E non parlarne di questi temi genera mostri e paure. L’ignoranza non fa nullo di buono, se non creare narrazioni opportunistiche e violente.

 

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