Camuffare l’identità dei propri libri è una specialità di tutti gli scrittori che devono fare i conti con un clima politico-sociale avverso. Ciò non li salva, ma può aiutarli a strappare un contratto di edizione o a guadagnare tempo. Non ho le prove per dirlo, tuttavia ritengo che Abbad Yahya abbia fatto valutazioni simili al momento di scegliere il titolo del romanzo Delitto a Ramallah.
Pubblicato in italiano lo scorso settembre da MReditori, questo romanzo è destinato a cogliere di sorpresa chi lo legge. I motivi sono più di uno, ma per cominciare conviene soffermarsi su ciò che balza subito all’occhio. La parola delitto fa bella mostra di sé in copertina. È una parola chiara e impattante come poche, promette molto e non può essere fraintesa, eppure in questo caso fraintendere è proprio quello che fa. Se c’è infatti una cosa sicura che si può dire sul libro di Yahya è che Delitto a Ramallah non è un giallo. Si traveste da tale ma non lo è. Così come non è un poliziesco né un thriller né un noir, tutti generi che con la parola delitto avrebbero avuto molto da spartire.
Anche questo libro qualcosa ce l’ha – Abbad Yahya non mistifica nulla –, tuttavia la storia del crimine è solo una delle tre di cui il romanzo si compone. E, a mio avviso, non è nemmeno la più interessante. In realtà Delitto a Ramallah è un romanzo di frontiera dalle molteplici chiavi di lettura, un libro che si situa al confine di più generi ma che non appartiene in modo esclusivo a nessuno.
Ad avere idee molto chiare su di esso sono invece le autorità palestinesi. Per loro, Delitto a Ramallah è un romanzo gay, un romanzo quindi molto scomodo e potenzialmente destabilizzante. Non solo a livello di morale pubblica ma anche politico, in quanto a loro avviso entrerebbe in conflitto nientemeno che con la Causa palestinese. Ora, le autorità locali non si ingannano. Delitto a Ramallah è indubbiamente un romanzo gay che usa il giallo come escamotage, ma forse la loro paura è anche un’altra. Quella di leggere nelle parole di Abbad Yahya la crisi politico-sociale del Paese, preludio al naufragio del loro sogno di libertà.
Sopravvalutato o meno il potenziale eversivo del romanzo, al lettore italiano Delitto a Ramallah regala uno sguardo inedito sulla realtà gay in Medio Oriente. Il pregiudizio di fondo che alimenta la maggior parte delle rappresentazioni che abbiamo del mondo islamico trova in queste pagine molte conferme, ma anche un contraltare ricco di sorprese. Ramallah è un ambiente urbano sovrapponibile a molte città occidentali di provincia: opportunità di lavoro, anonimato e un paravento per chi cerca di vivere la propria sessualità liberamente. La tolleranza che offre è limitata e suscettibile a non poche precauzioni, ma è sempre maggiore di quella che sta tutt’intorno. Le autorità rimangono l’insidia più grossa e sfruttano ogni pretesto per dare una lezione, tuttavia pure questo è da collegare più con la debolezza della democrazia che ad altre ragioni.
Sarebbe facile additare l’omofobia di matrice religiosa, ma la Palestina non è l’Iran e Abbad Yahya non fornisce nessun vero elemento che avvalori questa interpretazione. Come accade anche in ambienti a noi più familiari, la maggior parte delle volte intolleranza e omofobia sono le reazioni ostili di un mondo atavico più grande, di cui la religiosità è soltanto una delle sue numerose componenti.
Il libro di Yahya è ricco di spunti e aperto a numerosi filoni narrativi. La sua struttura tripartita è specchio di un solido impianto concettuale, e il fatto che a ogni parte corrisponda una diversa voce narrante conferisce dinamicità a tutto l’insieme. Lo stile dell’autore è consapevole delle tendenze attuali della letteratura e se ne serve in maniera propositiva. Anche se in traduzione, quando si comincia a leggere Abbad Yahya si capisce subito di essersi imbattuti in uno che sa maneggiare la penna. Pochi tocchi rapidi e sicuri gli bastano per evocare tutto ciò che gli serve, che siano personaggi oppure ambientazioni. Non ci sono grandi osservazioni da fare. L’unica è forse la tendenza alla ripetitività di certe situazioni o stati d’animo che sembrano paralizzare lo sviluppo narrativo, ma si tratta di questioni davvero marginali che non incidono sulla qualità stilistica di base né sulla tenuta romanzesca nel suo insieme.
Accanto all’omosessualità di due dei personaggi, l’altro asse portante di Delitto a Ramallah è il racconto di una generazione privata del proprio futuro. La Palestina odierna (il libro è ambientato fra il 2009 e il 2014) viene presentata come un Paese che ha smarrito la sua strada. Le vicende dei tre protagonisti svelano in qualche modo i destini che attendono i giovani palestinesi di oggi, figli delusi della prima Intifada. Votarsi, come i loro padri, al sacrificio per il sogno di uno Stato libero (un sogno che però si allontana ogni giorno che passa); soccombere alle ingiustizie perpetrate da una società sempre più allo sbando e aggressiva; oppure lasciare la propria terra per cercare la libertà altrove.
Abbad Yahya esprime un giudizio molto netto sulle non-opportunità che offre la Palestina contemporanea e non nasconde la propria amarezza. A tratti, il libro diventa opprimente, le parole aguzze, le pagine plaghe di roccia riarsa. Quello che non fa con le descrizioni, poche e minimali, l’autore lo ottiene comunque mediante una brillante lezione di stile. Fatti ed esempi non servono. In un romanzo, l’agonia di un Paese e del suo sogno la racconta il tipo di soffio che spira fra le sue pagine.
Delitto a Ramallah è il tipico romanzo che ha molto da dire ma non ti aspetti che lo faccia. La sua lettura, godibile dall’inizio alla fine salvo qualche rallentamento, lascia sul lettore un’impronta. Non lo si dimentica tanto presto, tocca corde troppo sottili per farlo, e in generale risveglia la coscienza. Essere gay non è la condizione indispensabile per apprezzarlo, anche se aiuta. È un romanzo valido, di buona stoffa letteraria. Così come il suo autore: una piacevole scoperta inattesa.