“Infantilizzare le persone con disabilità significa escluderle” – Intervista a Marina Cuollo

Ho parlato con Marina di abilismo, rappresentazione mediatica, Pride sempre più inclusivi. E dell'urgenza di "performare" più degli altri.

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intervista marina crollo
Ercolano (Napoli) 29 marzo 2022 Marina Cuollo scrittrice Ph: Stefano Renna
6 min. di lettura

Si parla poco di disabilità, e quando si fa non lo facciamo bene.

Io, per primo, quando mi ritrovo ad affrontare l’argomento sento che sto togliendo la parola a chi ne sa indubbiamente più di me. Non siamo abituat* a lasciar parlare le persone con disabilità: la narrazione comune ci ha abituato ad osservarle e raccontarle attraverso la nostra lente, crogiolandoci in tutta una serie di stereotipi e pietismi che fanno comodo ai nostri privilegi.

Marina Cuollo tutto questo lo sa, e non ha la minima intenzione di assecondarlo: nata a Napoli, classe 1981, si definisce una “microdonna, alta un metro e una mentina, che ha bisogno di mostrarsi sempre un po’ incazzata con il mondo per dire la sua“.

Nel suo lavoro come scrittrice, autrice di podcast, content creator, e speaker radiofonica, Cuollo ha preso il controllo della propria storia, deridendo i cliché opprimenti di una società abilita, e divulgando una narrazione sulla disabilità irriverente, brutalmente onesta, e piena di empatia. Dal suo libro “A Disabilandia si Tromba” nel 2017 alla sua attuale rubrica Area Marina su Vanity Fair (e un primo romanzo in arrivo con Fandango Libri), Marina Cuollo è una voce più urgente che mai nel nostro paese.

Noi di Gay.it ci abbiamo chiacchierato per riflettere insieme sull’abilismo, tra rappresentazione mediatica, Pride sempre più inclusivi, e l’urgenza di “performare” più degli altri.

 

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Come si è evoluto il tuo percorso di scrittrice e attivista negli anni? E quando cominciato a destrutturare i vari bias che riguardano la disabilità e l’abilismo partendo dalla tua formazione?

Il mio percorso di scrittrice e attivista hanno camminato in parallelo. Non scrivo da tantissimo, ma da sei o sette anni circa. Io in realtà ho una formazione completamene lontana da tutto ciò. Nasco come biologa e ogni mio studio parte dal campo scientifico. Ad un certo punto mi sono resa conto che avevo l’urgenza di comunicazione, anche partendo dal mio vissuto, e accorgendomi da quanto abilismo ci circonda. Quell’urgenza di comunicazione si è collegata chiaramente al mio essere una persona parte di una comunità marginalizzata. Ho cominciato a raccogliere una serie di strumenti e mi sono resa conto che l’umorismo è il mezzo con cui io mi trovo meglio. Per cui poi, la consapevolezza e la comprensione di tutta una serie di bias è venuta lentamente, non nell’immediato con l’attività di scrittura. Da quando è uscito “Disabilandia” nel 2017 io ho compreso tantissime altre cose nel mio percorso di crescita, e considero quel libro solo la punta del percorso. Avendo conosciuto tante altre persone che fanno attivismo, collaborare anche con la comunità LGBTQIA+, e trovare così tanti punti di contatto mi ha fatto crescere tantissimo. Penso che non si smette mai di crescere, apprendere, e guardarsi intorno. È un percorso in divenire.

Un argomento che hai trattato spesso che a me sta molto a cuore è quello della rappresentazione nei media, nello specifico in cinema e serie tv, e su come ad interpretare i personaggi disabili siano sempre attori o attrici abili. Lo stesso accade anche nella rappresentazione queer, dove c’è appunto un dibattito aperto riguardo chi può permettersi di raccontare e interpretare le nostre storie. La frase classica è: il mestiere dell’attore fa sì che possono interpretare tutto. Sapresti spiegare, dal tuo punto di vista, perché è tutto molto più complesso di così?

È innanzitutto una questione di opportunità. Non riguarda solo le persone con disabilità, forse nel nostro caso c’è l’inconvenienza di non poter essere intercambiabili: una persona con disabilità non può permettersi di interpretare una persona non disabile, quindi in questo caso le opportunità già si riducono. Ma non è solo per questo: tutti i gruppi più marginalizzati all’interno dell’industria ricevono un blocco. Chi prende le decisioni , chi si trova al potere è sempre e solo una certa tipologia di categoria: ora non voglio prendermela sempre e solo con i maschi bianchi etero cis, ma è la verità che al potere ci stanno solo loro. Anche nel mondo queer: quando si fa coming out ottenere i ruoli è sempre più difficile perché già all’interno dei casting ci sono barriere e si prendono sempre persone non appartenenti alla comunità per determinati ruoli, e il contrario non avviene. E qui si crea uno squilibrio. Nel caso delle persone disabili è molto evidente: secondo il GLADD, l’ultimo report del 2021/2022 il numero di personaggi con disabilità è solo del 2.8%, e stiamo parlando di un mercato enorme come quello americano. Immaginiamoci solo a proiettare quei dati in Italia. In una castità così evidente di ruoli, se poi quei pochissimi ruoli vengono assegnati a persone non disabili non lavoriamo più.

In secondo luogo quello che non si comprende è che determinate caratteristiche, come la disabilità, il genere, e la sessualità, fanno parte dell’identità delle persone. Per cui, quando una persona vede in continuazione persone che non fanno parte della propria comunità interpretare ruoli che presentano la loro identità è doloroso, perché tu vedi un’altra persona che interpreta quello che tu hai vissuto nella tua vita e senza cognizione di causa.

Io vorrei che questa consapevolezza – come già successo in America da più tempo con la questione del white washing – accolga sempre più categorie marginalizzate, incluse le persone disabilità.

 

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Ti vengono in mente dei validi esempi nei media di rappresentazione da cui si potrebbe partire, come punto di riferimento, nel raccontare la disabilità?

Partirei da quelle serie dove le persone con disabilità si trovano al centro e hanno potere decisionale. Mi viene in mente Special (su Netflix) prodotta, scritta, e interpretata da Ryan ‘O Connell che è una persona con disabilità e anche gay, quindi affronta il tema con intersezionalità. Mi viene in mente anche la splendida serie “Un metro e venti”, prodotta da due donne di cui una con disabilita, e ci offre un punto di vista femminista della disabilità. Mi viene in mente anche il lavoro di Steve Way nella serie Ramy, ma anche Years and Years ,o di recente nella serie Only Murders in The Building c’è un personaggio sordo interpretato da un attore sordo. Anche se sono esempi soprattutto dal mondo anglofono e i tempi sono lenti, il cambiamento deve arrivare. 

Ma perché la narrazione mainstream è così ossessionata con questa infantilizzazione dei corpi disabili e neurodivergenti?

L’infantilizzazione del corpo disabile ha un origine molto antica e c’è di mezzo anche molto l’influenza della religione cattolica. La cura sembra l’unico modo con cui collegarsi ai corpi disabili. Questo perché il corpo disabile crea molte paure nelle persone, rappresenta tutto ciò che non vorrebbero. Eppure, la disabilità è qualcosa che chiunque di noi potrebbe incontrare: che sia per incidenti o banalmente la vecchiaia che porta con sé tutta una serie di possibili disabilità. L’infantilizzazione è un modo semplice per raccontarci perché ci permette di escludere tutto un sistema costruito sul corpo abile. In questo modo noi evitiamo di riconsiderare la vita in modo più ampio, e ci limitiamo a quello che è sempre stato veicolato. Anche semplicemente un rapporto di coppia, il sesso, o il lavoro, vanno ripensati in ambiti maggiori, in una visione più ampia del corpo che non si limita più a quello conforme. Andrebbe completamente ripensato il mondo da capo che è un lavoro enorme. Escludere le persone è più semplice, e con l’infantilizzazione ci si riesce. Quando si nega alle persone l’autodeterminazione si impedisce letteralmente a loro di prendere parola e ovviamente in questo modo il mondo non viene ripensato. 

In un recente articolo tu hai parlato di come la maternità sul posto di lavoro subisce lo stesso trattamento della disabilità, e su come le persone disabili si ritrovano a dover performare di più, che è qualcosa penso riguardi quasi ogni gruppo marginalizzato. Secondo te si può non cadere in questo tranello?

Questo è un lavoro che anche io faccio su me stessa continuamente. La pressione della performance ci tocca chiunque: ha a che fare con un mondo dove chi raggiunge gli obiettivi è chi lavora 24/24, prosciugando le nostre energie al massimo. Questa formalmentis è pensata per i corpi più abili possibili, ed è un modello non pensabile su chiunque, a prescindere dalla disabilità. Solo in tempi recenti io ho compreso e riesco a pretendere dagli altri i miei tempi quando lavoro: solo ora io chiedo i ritmi giusti per il mio corpo. Prima non lo facevo perché la paura di sparire e non essere considerata, ed è qualcosa che ci coinvolge tutt*. È qualcosa di molto complesso, che andrebbe riconsiderato a livello globale. Non so come si possa fare per non cadere nel tranello, ma cominciare ad ascoltare noi stess* e nostri reali bisogni è certamente un passo importante. Mi rendo conto che in un mondo come questo non performare significa essere esclusi e mettersi da parte, ma se iniziassimo a tenere conto di tutto questo collettivamente – sia da chi lavora e chi offre il lavoro – potremmo cominciare a cambiare le cose. Ma è un lavoro collettivo.

 

 

Si è appena concluso il Pride Month, e Luglio è il Disability Pride Month. Anche quest’anno – sopratutto per quanto riguarda il Milano Pride – si è criticato il fatto che non fossero presenti persone con disabilità sul palco o al centro della conversazione. Inoltre, una recente ricerca di Simone Riflesso ha verificato come molti Pride in Italia non sono sufficientemente accessibili per chiunque. Secondo te quali passi in avanti sono stati fatti e quali dobbiamo ancora fare?

Io sto notando negli anni che c’è una consapevolezza maggiore riguardo il Disability Pride Month. Già fino a qualche anno fa era completamente sconosciuto. C’è ancora tanto da fare sull’accessibilità, ma non solo fisica – anche sensoriale e per la neurodivergenza. Secondo me piano piano si sta iniziando a prendere consapevolezza. Sicuramente se chi organizza gli eventi cominciasse a coinvolgere all’interno dei direttivi, secondo me sarebbe un punto importante verso il cambiamento: un conto è organizzare l’evento e poi doverlo adattare dopo in base alle esigenze, un conto è avere nel collettivo organizzativo con persone disabilità risparmia tanto lavoro e porta ad una svolta reale. 

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