Il Pasolini milanese di “La nebbiosa”

Nella Milano del boom economico, Pasolini mette in scena un gruppo di giovani borghesi dediti a bravate e violenza, del tutto inconsapevoli della propria autodistruzione.

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3 min. di lettura

Si dice Pier Paolo Pasolini e si pensa subito a Roma. Non la “Roma Bene”, la Roma monumentale che pur Pasolini conosceva, ma quella di borgata. La città nella città frutto del boom edilizio e demografico dell’Italia del Dopoguerra, luogo di frontiera dove la capitale rinnovava quotidianamente il suo assalto alla campagna, le greggi pascolavano in mezzo a casermoni di cemento ogni giorno più alti, e ragazzi male in arnese crescevano prima del tempo, svelti e infidi come erbacce. Di questa Roma e della sua gioventù selvatica Pasolini è stato il cantore indiscusso, quello che ha saputo renderle merito e dignità letteraria dove tutti gli altri non vedevano altro che delinquenza e squallore. Ma che il poeta, durante le sue peregrinazioni artistiche, avesse trovato il tempo e il modo di raccontare anche il lato oscuro dell’altra grande città italiana, Milano, è un dato che spesso scompare in mezzo alle bibliografie.

La nebbiosa è la sceneggiatura che Pasolini scrisse nel 1959 per un progetto cinematografico fallimentare. A chiamarlo a Milano in qualità di sceneggiatore (il suo debutto alla regia sarebbe avvenuto a breve con Accattone, 1961) era stato il produttore del film, il quale uscì nel 1963 col titolo di Milano nera. Fu un flop su tutti i fronti, e anche economicamente Pasolini dovette penare per ricevere il compenso pattuito. Oggi di quella pellicola non si ricorda più nessuno, ma la sceneggiatura ha continuato a essere ristampata periodicamente col titolo originale. L’ultima edizione di La nebbiosa risale allo scorso dicembre per merito della casa editrice milanese Il Saggiatore, e della curatrice Graziella Chiarcossi.

Il libro

Talento poliedrico e intellettuale dagli interessi trasversali, Pier Paolo Pasolini è stato molte cose. Aveva un’opinione su tutto e leggendo i suoi scritti è ancora possibile riconoscere un’intelligenza indomita e guizzante capace di costruire ponti tra concetti apparentemente lontani. In La nebbiosa emerge la sua vocazione sociologica, la stessa che aveva contribuito a dare forma ai suoi affreschi romani. Al cambio di città e di ambiente corrisponde un cambio di soggetto: dai ragazzi di borgata, lo scrittore alza il tiro e sceglie come soggetto della propria sceneggiatura certi figli poco presentabili della borghesia cittadina. Un piccolo paniere di mele marce abituate a spadroneggiare, seminando disordine e violenza in una società intorpidita nonché del tutto impreparata a gestire i fenomeni che essa stessa mette in atto.

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P.P. Pasolini, “La nebbiosa”, a cura di G. Chiarcossi, Il Saggiatore, Milano, 2020.

L’azione si svolge in un’unica notte, quella di Capodanno. Tra bravate, atti blasfemi, furti e orge, la storia propone una carrellata turbinosa di personaggi e di situazioni che, nella sua escalation di follia, prepara il lettore all’inevitabile finale.

Teddy Boys

Ispirato da alcuni fatti di cronaca nera che videro protagonista l’ex Decima Mas Paolo Casaroli, Pasolini traspone in letteratura il fenomeno dei teddy boys, una subcultura nata in Inghilterra alla fine degli anni ’40 che, nella sua volontà di distinguersi, almeno in alcune sue frange, si lasciò sedurre dalla violenza. La vocazione sociologica di Pasolini di cui dicevo prima si osserva non solo per il fatto che abbia indagato dal punto di vista letterario un fenomeno socio-culturale di primo piano, ma anche per l’urgenza, tipica dello scrittore, di dare una spiegazione – o quanto meno una risposta – al fenomeno di cui si sta occupando. Nella sua prefazione a La nebbiosa, Alberto Piccinini riporta un brano in cui Pasolini, commentando i lavori di un congresso di esperti, denuncia chiaramente i padri reali di tale “gioventù traviata”: i conferenzieri stessi, la loro classe sociale.

«tanta presunzione pedagogica, tanta cecità reazionaria, tanto sciocco paternalismo, tanta superficiale visione dei valori, tanto represso sadismo, non possono che giustificare l’esistenza, in molte città italiane, di una gioventù insofferente e incattivita.»

Compiaciuto esegeta di sé stesso, Pier Paolo Pasolini ha scritto e detto molto su di sé. Come in moltissimi altri casi analoghi, il suo giudizio è tanto prezioso quanto netto ma non rappresenta necessariamente la chiave per godere e comprendere le sue opere letterarie. Le quali, pur riverberandosi nelle centinaia di articoli e saggi, rimangono sempre proprietarie di sé stesse, ovvero concluse nel loro perimetro di carta e inchiostro.

La nebbiosa non è fra le opere più note di Pasolini, ma rappresenta degnamente il bagaglio culturale, intellettuale, artistico e critico di uno degli autori più liberi e coerenti della letteratura italiana del Dopoguerra.

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Stefano Lani 12.4.21 - 11:15

Di solito si dice che sono i migliori i primi ad andarsene (e qualcun altro invece a rimanere in vita).Non so poi a cosa ti riferissi con "le marchette stanno bene solo al cimitero" di Pasolino ho visto 6-7 film non il tuo, ma se intendi come lavoro...beh potevi evitare di sprecare il fiato.

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Franzc Dereck 12.4.21 - 10:23

La migliore battuta conclusiva di uno dei più importanti film di Pasolini è :" Mo' sto mejo" , pronunciata in punto di morte da uno dei " Ragazzi di vita". Infatti le marchette stanno bene solo al cimitero.

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