Nell’ultimo decennio l’India ha fatto passi da gigante nell’ottica di una graduale e lenta apertura ai diritti della comunità LGBTQ+. Ad oggi, i diritti sono solo parzialmente riconosciuti e sono ancora in vigore leggi dell’età coloniale che, tuttavia, sembrano destinate ad essere poco a poco cancellate.
La notizia delle ultime ore che sta facendo il giro del mondo vede protagonista una sentenza della Corte Suprema indiana, che ha dimostrato una notevole apertura verso il progresso dei diritti delle famiglie “non tradizionali”. Il tutto è nato dal caso giudiziario di Deepika Singh, un’infermiera che si era appellata alla Corte per vedere riconosciuti i propri diritti: Singh si è vista rifiutare la domanda di congedo di maternità dopo il parto perché in precedenza l’aveva già chiesto per prendersi cura dei figli del marito.
In India le questioni familiari e la custodia dei figli riempiono quotidianamente le aule dei tribunali. La legislazione indiana prevede che, nella maggior parte dei casi, in caso di separazione i bambini debbano essere affidati alle madri. Tuttavia, le famiglie hanno il diritto di contestare che i figli stiano meglio con i padri, questo nell’ottica della tradizione indiana che vede vivere sotto lo stesso tetto diverse generazioni di una famiglia.
Nel caso di Deepika Singh, la Corte Suprema ha stabilito quanto segue:
«Il concetto di ‘famiglia’ sia nella legge che nella società è che consiste in un’unica unità immutabile con una madre e un padre (che rimangono costanti nel tempo) e i loro figli. Questa ipotesi ignora il fatto che molte famiglie non si conformano a questa aspettativa»
DY Chandrachud, il giudice che ha firmato la sentenza, si riferisce alle famiglie formate da più tipologie di adulti, siano essi genitori single, separati o dello stesso sesso. La conclusione della sentenza viene già considerata una pietra miliare della lotta per l’uguaglianza delle donne e delle persone LGBTQIA+ nella società indiana. In India la comunità queer, – come vi avevamo raccontato qui a proposito del trattamento riservato dalle forze dell’ordine alle persone LGBTQIA+ – vive in condizioni di cittadinanza di fatto non egualitarie.
«Queste manifestazioni di amore e di famiglia possono non essere tipiche, ma sono reali come le loro controparti tradizionali. Tali manifestazioni atipiche del nucleo familiare sono ugualmente meritevoli non solo di tutela giuridica, ma anche dei benefici previsti dalla legislazione in materia di assistenza sociale»
La Corte Suprema ha quindi riconosciuto che, sia a livello legislativo sia sociale, le famiglie atipiche, non formate cioè dalla classica idea di madre e padre, debbano godere degli stessi diritti di quelle tradizionali. La mossa, inaspettata, ha ottenuto il plauso di associazioni e organizzazioni LGBTQ+, nonché dei Paesi occidentali dove, rispetto al continente asiatico, i diritti LGBTQ+ sono più avanti.
Anche se il potere della Corte Suprema è limitato e rimane da vedere quanto tempo ci vorrà per rendere effettivo il provvedimento a livello governativo, soprattutto nelle aree più conservatrici dell’India, la sentenza è in netto contrasto con le ultime notizie che sono arrivate nelle scorse settimane dall’Asia, come la decisione di Singapore di non legalizzare il matrimonio tra persone dello stesso sesso, sottolineando come la depenalizzazione del sesso gay non rappresenti una nuova strada per i diritti LGBTQ+.
In India le cose sembrano andare meglio: una sentenza storica del 2014 ha riconosciuto il terzo genere per le persone transgender, che hanno così accesso alle tutele legali e assistenziali degli altri due generi. Un’altra sentenza del 2018, altrettanto storica, ha depenalizzato il sesso gay, cancellando una legge coloniale che risaliva addirittura al 1860.
Il che non significa che si tratti improvvisamente di un paradiso per le persone LGBTQIA+: i casi di omofobia e discriminazione sono ancora presenti, come detto anche da parte delle forze dell’ordine, ma il cambiamento, seppur lento, sta arrivando. La strada intrapresa dalla legislazione indiana indica una direzione che, si spera, possa essere intrapresa anche da altri Paesi orientali.
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