Per intersezionalità si intende precisamente la sovrapposizione, o ancor meglio intersezione, di più identità all’interno del sistema sociale: persone LGBTQIA+, ma anche donne, persone nere, persone disabili. Tutte queste identità possono apparire separate , ma in realtà sono unite dallo stesso fil rouge, dove omobitransfobia, razzismo, sessismo e abilismo operano su più livelli, spesso simultaneamente.
Il termine è stato coniato nel 1989 da Kimberlé Crenshaw, docente di legge, nera e femminista, che definì la parola intersezionalità “una metafora per capire come le diverse forme di ineguaglianza e discriminazione talvolta si mischino tra loro, creando ostacoli che spesso non sono compresi da un modo convenzionale di pensare”. Il concetto stesso di intersezionalità propone un’analisi più approfondita delle nostre lotte: se nella battaglia per la parità e la giustizia sociale non si tiene conto di tutte le parti marginalizzate, non ci sarà mai una reale liberazione. La stessa Crenshaw prese in esame il caso di Emma DeGraffenreid, lavoratrice afroamericana che nel 1976 protestò – affiancate da altre donne nere – contro l’azienda di autoveicoli, General Motors: Degraffenreid fece notare come l’azienda assumesse solo uomini o donne bianche, escludendo radicalmente le donne nere. Un controsenso, che al contempo, univa due discriminazioni in una: la misoginia e il razzismo. L’essere donna in una società maschilista si estendeva all’essere donna e nera in una società maschilista e razzista.
La battaglia intersezionale parte proprio dal presupposto che per quanto ogni gruppo marginalizzato vive una discriminazione, ogni categoria ha delle caratteristiche e delle ripercussioni sociali diverse, che dipendono anche da etnia, classe sociale, e lo status di immigrazione, ampliando quella diseguaglianza su più piani. È fondamentale comprendere in quale contesto e spazio avvengono le intersezioni, e prestare attenzione a quali categorie tendiamo a lasciare indietro: non è una gara a chi sta peggio, quanto una lente attraverso la quale osservare e operare le nostre battaglie, in modo da riconoscere anche le rispettive differenze e privilegi, e agire collettivamente in una lotta comune.
È anche per questo che oggi utilizziamo parole più adeguate per raccontare ogni battaglia: come transfemminismo – termine coniato dall’attivista intersessuale Emy Koyama, per parlare di un femminismo che includa la liberazione delle donne transgender e non – ma anche queer ecology – termine che unisce la protezione del nostro pianeta alle teorie queer, insieme a studi di genere e giustizia ambientale. Questo perché – sia le battaglie LGBTQIA+, sia l’ecologia, sia il femminismo, sia il razzismo, sia l’abilismo – sono tutte categorie che rispondono allo stesso sistema patriarcale, eteronormato, e capitalista, che su larga scala opprime chiunque fuoriesca da quello status quo.
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