Tra il 1972 e il 1973, l’esplosione della seconda ondata femminista lasciava spazio a scenari imprevedibili: se fino a qualche decade prima le donne erano confinate nei ruoli di madri, mogli, e oggetti dello sguardo maschile, gli anni settanta riattribuivano una nuova autonomia, una consapevolezza di sé stesse e del proprio corpo in costante crescita, con l’urgenza di scavalcare gli schemi retrogradi dell’epoca passata. Per la prima volta le donne non erano solo pedine in funzione dell’appetito maschile, ma soggetti pensanti, con desideri, pulsioni, e un corpo che viveva (e godeva) di piacere proprio.
Fu così che all’editrice Gay Bryant venne il lampo di genio: perché non sfornare una rivista rivolta al pubblico femminile, che alternasse foto pornografiche ma anche saggi femministi, stimolando desiderio e riflessioni? Bryant presento l’idea a Bob Guccione, fondatore di Penthouse, che insieme a Playboy e Hustler, coronava il podio delle riviste pornografiche più famose d’America. L’idea convinse Guccione, e nel 1973 nacque Viva, “the internazionale magazine for Women” , o anche ricordata come la prima rivista porno per donne degli anni 70.
Viva era la quintessenza della rivoluzione femminista, con storie di emancipazione sfacciate, irriverenti, e libere da qualunque tipo di perbenismo: alternava saggi sull’importanza di dire no, saggi politici, recensioni di libri, pezzi sull’astrologia, tutti dalla penna di autrici e giornaliste donne. Viva trovava spazio anche per racconti di survivor, raccogliendo più di 2,000 testimonianze di stupro, che nel 1976 diedero vita al saggio “Outrage! The Viva Rape Letters“.
La rivista vedeva il contributo di alcune dei nomi più in gamba dell’industria, come Gail Sheehy, Maxine Hong Kingston, and Sheila Weller, e una fashion editor che prendeva il nome di Anna Wintour. “Aveva una personalità forte” commenta Alma Moore, direttrice tra il ’74 e il ’75: “Abbiamo discusso di come pagine dedicata a moda e bellezza fossero terribilmente importanti per la rivista, e lei rapidamente ha preparato degli splendidi servizi.”
Viva, tra un trattato di Maya Angelou e il premio Nobel Nadine Gordimer, alternava anche pettorali pelosi, peni a destra e manca, uomini nudi a cavallo sulla spiaggia, sesso tantrico. “Abbiamo riconosciuto che le donne erano interessate agli uomini, erano interessate al sesso, e anche che le donne avevano una mente” dice a Shondaland, Anne Gottlieb, editrice per Viva tra il ’74 al ’76: “Il concetto era che le donne avessero piena azione, sia sul piano mentale che fisico. Donne che erano presenti negli stessi settori degli uomini e potevano avere desideri, idee brillanti, ed essere interessate al corpo degli uomini – e senza alcuna contraddizione”.
La ricordano come un’operazione rivoluzionaria e coraggiosa per l’epoca e al contempo intrisa dagli stessi retaggi: “Buona parte delle storie erano scritte da una posizione di privilegio – bianca, cisgender, eterosessuale, abile, neurotipica – e stesso valeva per buona parte delle persone fotografate e raccontate tra quelle pagine” scrive Molly Savard per Shodaland. Ma pur riflettendo specifici bias, Viva era una boccata d’aria fresca non solo per uno specifico pubblico femminile, ma anche maschile. “Chi comprava la rivista? Uomini gay” dice la senior editor Robin Wolaner, spiegando che non esistevano delle riviste gay di riferimento e in qualche modo Viva soddisfava anche quella fetta di pubblico.
Verso la metà degli anni 70, la rivista iniziò a raggiungere una fase di stallo: cosa voleva davvero vedere il pubblico femminile? Qual è la linea sottile tra erotismo e pornografia? Il desiderio femminile è veramente acceso da dei falli in primo piano? Questa costante messa in discussione iniziò a determinarne una crisi d’identità, tanto che nel 1977 iniziò a prendere le sembianze di una classica rivista femminile ma priva di un focus preciso. Nel giro di cinque anni, senza profitti o mantenimenti, Guccione smise di finanziare Viva, con un’ultima pubblicazione nel Gennaio 1979.
Ma Viva viene ricordata ancora oggi come un breve e intenso momento di caotica gioia, dove una redazione composta a larga scala da donne poteva dare libero sfogo al proprio estro creativo, senza sottostare alla manovra dell’editore di turno o piegarsi al male gare, celebrando le proprie storie e punti di vista: “Viva era casa per le storie coraggiose che le autrici e scrittrici dell’epoca volevano raccontare” scrive Savard “Libere dalla rigidità delle riviste femminili tradizionali o pubblicazioni vecchi stampo e discriminatorie come Newsweek, si sono messe in gioco e hanno esplorato quello che le interessava”.
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