Rappresentazione queer nell’animazione: storia e differenze tra oriente e occidente dai primi del 900′ ad oggi

Un confronto tra la rappresentazione queer nell'animazione occidentale e in quella orientale dai primi del 900' a oggi.

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Il 2018 vide una svolta importantissima in ambito di rappresentazione queer per quanto riguarda l’animazione occidentale – più che altro di origine statunitense – , offrendo a bambini e adolescenti di tutto il mondo una scena semplice ma di impatto che normalizzava, di fatto, l’amore tra due persone dello stesso sesso.

Gli autori della popolarissima serie animata “Steven Universe”, decisero di includere una meravigliosa scena con protagonista un matrimonio omosessuale in uno dei suoi episodi.

Rebecca Sugar, ideatorǝ dello show, si identifica come bisessuale, non binariǝ e genderqueer: non vi è quindi da stupirsi se sia statǝ proprio unǝ rappresentante della comunità LGBTQIA+ a raggiungere un obiettivo così ambizioso.

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Foto di GayTimes

Secondo quanto raccontato da Sugar, ci sono voluti diversi anni prima che i “piani alti” permettessero la messa in onda di un episodio definito “controverso”.

Eppure, se guardiamo alla storia della rappresentazione queer nell’animazione occidentale, essa è costellata di stereotipi dannosi, queerbaiting, queercoding e – in generale – un sottotesto volto a mostrare le identità LGBTQIA+ come qualcosa di sbagliato, o al più umoristico.

Nel Giappone conservatore, dall’altra parte del mondo, troviamo invece una storia di rappresentazione dall’evoluzione più rapida e dai connotati variegati. Ma perché?

Storia della rappresentazione queer nell’animazione occidentale e in quella orientale

Naturalmente, l’episodio di Steven Universe di cui abbiamo parlato in precedenza non è stato il primo a rappresentare le identità LGBTQIA+ nell’animazione occidentale. Tuttavia, in precedenza, questo elemento è stato riservato principalmente alle opere destinate a un pubblico adulto.

A differenza di quanto succedeva invece nel Sol Levante: Princess Knight, cartone per bambini uscito in Giappone nel lontano 1967 – è forse la primissima rappresentazione genderfluid nell’animazione: qui, una principessa che possiede due cuori (uno maschile e uno femminile), cambia a piacimento il suo genere.

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Foto di Nozomi Entertainment su YouTube

Senza contare il boom degli yuri e negli yaoi, originati negli anni 70’. Sebbene le opere dipingessero le relazioni omosessuali in maniera irrealistica e super sessualizzata – quasi come un fetish – non vi fu alcun ostacolo alla loro pubblicazione e distribuzione al pubblico mainstream.

Nel 1979, uscì invece Lady Oscar, un altro manga – successivamente trasposto in anime – a trattare liberamente la fluidità di genere e a romperne gli stereotipi grazie al personaggio di Oscar, natǝ donna ma cresciuta da uomo.

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Foto di Italiani.it

Per quanto riguarda l’occidente, ci sarà invece da aspettare fino alla fine del secolo.

Dal 1990 al 1994, dalle nostre parti, lo show più prominente in ambito di rappresentazione LGBTQIA+ erano “I Simpson”. Tuttavia, molti personaggi omosessuali e transgender si configuravano come secondari, e raramente occupavano posizioni di rilevanza – men che meno da protagonisti.

Il primissimo episodio dei Simpson uscì nel 1989, e introdusse Smithers – nominato in onore dell’attore comico e burattinaio Wayland Flowers – uno dei primi personaggi palesemente omosessuali introdotti nell’animazione occidentale.

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Foto di @dailysimpsons su Twitter

Tuttavia, il contesto non era dei migliori: come molti personaggi LGBTQIA+, ai tempi, gli sceneggiatori approcciarono la questione con leggerezza creando un personaggio caricaturale, che non attirasse troppo l’attenzione dei critici.

Per la rappresentazione lesbica sarà necessario aspettare fino al 2005, con l’episogio “Gay, un invito a nozze”, dedicato interamente al matrimonio omosessuale e al coming out di Patty Bouvier, sorella di Marge. L’episodio si ispirava al primo matrimonio omosessuale celebrato in America, a San Francisco.

Volevamo esplorare i diversi punti di vista dei vari personaggi sulle nozze gay” – ha spiegato Al Gein, produttore dello show. Alla data di uscita, l’episodio fu visto da oltre 10 milioni di spettatori, diventando il più guardato della stagione.

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Foto di Me Blog Write Good

Tuttavia, almeno in quegli anni, i Simpson erano l’eccezione: la stragrande maggioranza dei personaggi considerabili queer non lo erano ufficialmente.

Anni prima, negli anni 90 in Giappone uscivano Sailor Moon e Cardcaptor Sakura, due opere che includevano senza troppi fronzoli, relazioni lesbiche – pesantemente censurate nelle versioni tradotte e importate in occidente.

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Foto di The Soundcheck

Stesso destino è toccato poi alla trasposizione occidentale di Neon Genesis Evangelion, che accennava a una relazione omosessuale tra il protagonista – Shinji Ikari – e il collega Kaworu. Perché?

Ebbene, le relazioni LGBTQIA+ dipinte nelle opere orientali erano scevre di tutte quelle sovrastrutture caricaturali presenti invece nell’animazione occidentale. Negli anni 90’, se un personaggio era canonicamente omosessuale non doveva prima di tutto trovarsi in un cartone animato per bambini, e in secondo luogo doveva risultare una macchietta comica di poco spessore.

South Park, ad esempio, uscì nel 1997. Il quarto episodio, “Ricovero per cani gay”, aveva come protagonista un uomo gay, “Big Gay Al” – proprietario di un rifugio per animali gay. Al diventerà un personaggio ricorrente, ma è evidente che il suo ruolo è quello di comic relief.

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Foto di South Park

Il pubblico LGBTQIA+ definì Big Gay Al uno “stereotipo meschino e dannoso”. Ed effettivamente, osservandolo nei primi episodi, è difficile non essere d’accordo con questo parere.

Ma perché la cultura occidentale risultava così focalizzata sugli stereotipi legati alla comunità? Per comprenderlo, è necessario fare un gigantesco passo indietro agli anni 20.

In questo periodo, Hollywood era costellata di scandali: omicidi, violenza e abuso di droghe ne erano elementi caratterizzanti, ed il pubblico puritano degli anni aveva cominciato a protestare a boicottare tutte quelle opere che riflettevano quell’ambiente.

Da qui, il bisogno di una regolamentazione più ferrea su ciò che poteva e non poteva essere ammesso nelle sale cinematografiche. Era la nascita del codice Hayes, una censura spietata a tutto ciò che veniva definito immorale, tra cui anche l’omosessualità.

Anche l’animazione dovette adattarsi alle nuove regole: a Betty Boop fu imposto un look più modesto, e i personaggi queer coded dovettero diventare un modo subdolo per denigrare omosessuali e “travestiti”.

Eventualmente, il codice di condotta che aveva terrorizzato i media per quasi quindici anni cominciò ad indebolirsi, anche perché molto autori riuscirono a trovare trucchetti e semplificazioni per includere i temi vietati.

Proprio nel 1940, il già florido mondo dell’animazione diede il benvenuto a Bugs Bunny, definito – negli anni a seguire – la primissima drag queen animata, a causa della sua propensione ad indossare abiti definiti “femminili” in diversi episodi dello show.

RuPaul lo definirà la sua ispirazione primaria.

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Foto di BGCP Comic Con

Bugs Bunny fu uno dei primi personaggi a rappresentare effusioni tra persone dello stesso sesso. Il che non veniva visto come una “depravazione”, perché in quel momento il coniglio baciava un uomo vestito da donna.

Gli sceneggiatori difesero per anni le loro scelte stilistiche, negando qualsiasi tipo di queer-coding per Bugs Bunny e spiegando che gli atteggiamenti rappresentati nel cartone esistessero solo per essere divertenti.

E il diversivo, per molti anni, funzionò. Si riparlerà nuovamente dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale di Budgs Bunny solo nel 1997, con l’uscita dell’iconico Space Jam.

Alla fine degli anni 50’, Hollywood si rivoltò definitivamente contro il codice Hayes, dando vita a diversi casi arrivati in Corte Suprema che portarono alla sua abolizione e alla sostituzione con una nuova regolamentazione della “Motion Picture Association of America”.

Tuttavia, questo non si tradusse in una migliore rappresentazione queer, anzi. La pletora di personaggi queer-coded in film Disney e cartoni animati, fradici di stereotipi dannosi, fece spesso più danni che altro.

Arriviamo però a Gargoyles, serie TV dal successo planetario, trasmessa negli anni 90’. Diversi anni dopo la messa in onda, in molti hanno reinterpretato questo cartone animato ormai dimenticato in chiave queer.

E, con grande sorpresa degli appassionati, l’ideatore di Gargoyles – Greg Wiseman – confermò questa interpretazione, specialmente per il personaggio di Lexington, canonicamente gay.

“Se l’avessi detto espressamente mi avrebbero licenziato”.

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Foto da Wikipedia

Nel giugno del 2021, in un’intervista, Wisemen aveva infatti spiegato che l’ideazione e l’inserimento di personaggi LGBTQIA+ in qualsiasi serie animata era ufficiosamente vietata, perché molti studi di animazione temevano la reazione del pubblico.

Nell’entropia colorata degli anni 90’, tuttavia, chi regnava davvero era la Disney. Nonché la sua flotta di cattivi palesemente queercoded, la maggior parte dei quali creati dall’animatore omosessuale Andreas Deja.

L’influenza di Deja sull’attitudine dei villain era impossibile da ignorare. L’esempio più calzante è quello di Ursula, antagonista in “La Sirenetta”, ispirata alla drag queen Devine.

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Foto di RadioTimes

Eppure, una rappresentazione di questo tipo risultava comunque distorta, specialmente per tutt* quell* bambin* segretamente LGBTQIA+ che si rivedevano nelle loro opere preferite solo come antagonisti o macchiette comiche.

Nel giugno del 1998, la svolta. L’uscita di “Mulan” fu un fulmine a ciel sereno in un mondo Disney in cui i “travestiti” erano al massimo l’elemento comico. Qui, è la protagonista a vestirsi da uomo e a salvare la Cina proprio grazie al suo inganno.

Tuttavia, anche qui era tutto lasciato all’interpretazione, vera parola chiave dell’analisi sulla rappresentazione LGBTQIA+ nell’animazione. Mulan non è canonicamente transgender.

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Foto di MentorEnglish Movies su YouTube

Storia della rappresentazione queer moderna

Ai suoi inizi in Cartoon Network, Rebecca Sugar aveva proposto un’eventuale sviluppo della relazione tra la Principessa Bubblegum e la vampira Marceline nella celebre serie animata Adventure Time. Cosa che le è quasi costata il licenziamento.

Lo stesso trattamento è stato riservato alla creatrice di Owl House, prima che i piani alti si accorgessero che i tempi erano cambiati e che la rappresentazione queer era non solo permessa, ma anche richiesta a gran voce dagli attivisti.

Non so mentire. Quindi dal primo think tank ho espresso l’intenzione di inserire personaggi queer all’interno del mio cartone animato. Inizialmente, la cosa è stata accolta con sdegno e preoccupazione dai piani alti e mi è stata vietata”.

Tutto questo succedeva mentre, nel 2013, Attack On Titan presentava casualmente il primo personaggio non binario, lǝ scienziatǝ Hange.

E con questo arriviamo a oggi: Steven Universe e Owl House – non la Disney, che oggi si prende tutto il merito – sono stati i veri apripista per la rappresentazione queer all’interno dell’animazione occidentale, fortemente influenzata dal contesto storico in cui essa si è sviluppata.

Mentre in Giappone, paese paradossalmente più conservatore e anti-LGBTQIA+, la rappresentazione queer ha sempre avuto il via libera.

L’origine della differenza di mentalità

Esistono diversi studi che hanno messo a confronto il fenomeno della rappresentazione queer nei media in occidente e in Giappone dai suoi albori.

Con animazione occidentale, intendiamo principalmente le opere provenienti dagli Stati Uniti: Disney, Cartoon Network, Nickelodeon e altre case di produzioni che hanno avuto, negli anni, grande successo anche in Europa.

La religione cristiana ha avuto una profonda influenza sull’attitudine conservatrice negli Stati Uniti. Il discorso religioso è alla base di molti elementi caratterizzanti nel panorama politico e sociale americano dalla sua fondazione.

Il che si è riflettuto inevitabilmente anche nei media: c’è sempre stato un sottotesto e un messaggio morale in tutte le opere di animazione. La fede, il patriottismo e i valori tradizionali hanno sempre trovato il modo di inserirsi in cartoni animati di ogni genere.

E, anche in quelle opere che avevano l’obiettivo di dissacrare l’attitudine conservatrice americana, esisteva comunque un codice non scritto che influenzava – in maniera consapevole o meno – l’attitudine degli ideatori verso la rappresentazione queer.

In contrasto con il forte retaggio riscontrabile in qualsiasi cartone animato – per adulti o meno – prodotto negli Stati Uniti, le opere giapponesi non hanno questa influenza, perché qui la fede cristiana non è così diffusa e non è la religione fondante.

I cartoni animati giapponesi si ispirano invece ai principi dello shintoismo e del buddismo, andando ad esprimere valori e morali diverse – anche quando si parla di tematiche queer. Non che il Giappone, a modo suo, rimanga un paese conservatore: la comunità LGBTQIA+ non è così normalizzata quanto le opere di cui abbiamo parlato finora potrebbero far credere.

Eppure qui le linee sono più sfocate: se nelle opere occidentali esiste un principio “bianco-nero”, la narrazione della controparte tende a includere diverse sfumature che non determinano mai un assoluto, e lasciano quindi l’ultima parola allo spettatore – anche in ambito di rappresentazione queer e la sua interpretazione.

Ultima parola che responsabilizza lo spettatore, e lascia una maggiore libertà agli autori.

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