Negli anni Ottanta l’ondata femminista e queer si manifestava anche in quel mix di arte, stile punk e diritti per le donne. Specie in Inghilterra, dove venivano chiamate “dykes”, questi gruppi si trasformavano in vere e proprie organizzazioni di attiviste, che potevano anche arrivare a gesti esemplari come le manifestazioni davanti Westminster e la sede della BBC. È il caso del gruppo protagonista di Rebel Dykes, il docu-film creato da Harri Shanahan e Siân A. Williams, che si opponeva con qualsiasi mezzo alla linea omofoba del governo Tory di quegli anni.
Lo spirito punk del gruppo si formò al Greenham Common Women’s Peace Camp, in un’Inghilterra divisa tra la crescente epidemia di AIDS e l’era della Sezione 28 di Margaret Thatcher. Un punto di rifugio per tante donne a cui le famiglie avevano voltato le spalle dopo che avevano fatto coming out, così come erano le benvenute tutte coloro che non si sentivano accettate nella società. Vediamo così immagini di repertorio e registrazioni che ci raccontano della vivacità, lo splendore e la ribellione della scena punk e underground che ha gettato le basi per molti gruppi LGBTQ+ attivi ancora oggi nel Regno Unito. Il film, che uscirà a breve in streaming, è stato preceduto da un’esposizione a Londra che è diventata virale sui social, soprattutto su Tik Tok.
La cosa non è passata inosservata e ha raggiunto anche Siobhan Fahey, una delle originali Rebel Dykes che vediamo anche nel film e cantante del gruppo Bananarama. Affidando le sue parole a un’intervista, ha detto di essere rimasta toccata dalla reazione dei giovani queer di oggi a una storia che risale ormai a quarant’anni fa, riprova che i temi per cui ci battiamo oggi hanno viaggiato nel tempo e uniscono le esperienze e le realtà di tutte le persone queer: «La reazione, in particolare dei giovani queer – e sto parlando di quelli che chiamate Generazione Z, quelli che salveranno il mondo, persone favolose – è stata incredibile. C’è stat gente che piangeva, che diceva di essere stata rappresentata per la prima volta e che non conosceva questa storia».
«È fantastico che la gente conosca queste storie e… che le persone queer più grandi incontrino i giovani»
Rebel Dykes è solo l’ultimo di diversi titoli che negli ultimi tempi hanno raccontato la vita della comunità LGBTQ+ degli anni Ottanta in Inghilterra. Tra questi, Mothers of the Revolution e It’s a Sin, che hanno finalmente dato ascolto a una grossa parte di pubblico queer che da tempo reclamava che queste venissero finalmente portate sullo schermo e fatte conoscere a quante più persone possibile: parte della rivoluzione che stiamo vivendo oggi la dobbiamo anche a loro.
Anche il nome, Rebel Dykes, è stato inventato da Siobhan, mentre raccontava le sue vicende a un’amica in un pub. Ha raccontato: «Abbiamo usato quel termine per includere tutte le lesbiche o dykes o che dir si voglia degli anni Ottanta. Quindi i punk e reggia e i sistemi sonori – sapete, tutti quelli che semplicemente non si adattano? Lavoratori del sesso e link e… punk e tutto il resto. Uscivamo tutti insieme ed è stato un bel divertimento, noi contro il mondo».
Per Siobhan Faye, il successo del docs-film è il segno che, ora più che mai, la comunità LGBTQ+ deve essere unita e imparare a comunicare, indipendente da tutto. Tra diritti conquistati e tolti, leggi a favore e contro, discriminazioni, un passo avanti e due indietro verso quell’uguaglianza a cui tuttə agogniamo, ecco, è forse il caso di ribadire ancora più forte questo messaggio: «Queer e dykes di tutte le generazioni hanno subito un trauma enorme e spero che il nostro progetto aiuti a far avvicinare le persone».
«Il film parla di comunità e di farsi una risata. Uno dei registi, Harri, dice che la gioia queer è una forma di resistenza queer, e penso che sia adorabile».