Cos’è, cosa non è la cancel culture e come la usano contro di noi

Ti diranno che non si può più dire niente. Ecco perché non è così.

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4 min. di lettura

Cancel culture (traducibile in “cultura della cancellazione” o “cultura del boicotaggio”) significa stando alla Treccani:

“atteggiamento di colpevolizzazione, di solito espresso tramite i social media, nei confronti di personaggi pubblici o aziende che avrebbero detto o fatto qualcosa di offensivo o politicamente scorretto e ai quali vengono pertanto tolti sostegno e gradimento”.

È un termine che negli Stati Uniti viene utilizzato già da tempo: uno dei primi esempi fu nel film New Jack City del 1991, dove il gangster Nico Brown lascia la sua fidanzata con la frase “Cancel that bit*ch”.
Lo sceneggiatore, Barry Michaeal Cooper scrisse la frase ispirandosi alla canzone degli Chic Your Love is Canceled: ti cancello per il tuo comportamento terribile, per come mi hai trattato.

Biancaneve e cancel culture

Soprattutto nell’accezione che ne fanno in Italia, si crede che la cancel culture consiste nell’eliminare completamente le tracce di un passato – artistico, cinematografico, letterario-  dagli elementi problematici – che siano razzismo, omobitransfobia, misoginia, o abilismo o quant’altro.
In verità, come scrive Clyde Mcgrady per il Washington Post, più che cancellare davvero, si cambia semplicemente canale.
La cancel culture invita a non assecondare passivamente un’opera dai contenuti problematici, ma la contestualizza nel nostro periodo storico, con la possibilità di non normalizzare il danno come in passato.
Quindi non verrà vietato ai bambini di guardare Biancaneve, ma magari faremo sapere che nella vita non puoi baciare una donna solo perché non è cosciente.
Non verrà eliminato il contributo di Indro Montanelli nel mondo del giornalismo, ma verrà da chiederci quanto è il caso nel 2021 di dedicare una statua ad uno stupratore dichiarato, in un parco a suo nome dove vanno a giocare minorenni con la stessa età delle sue vittime.

Chi viene “cancellato” perde il lavoro? Possibile, ma è una scelta che ha ragioni oltre che politiche, soprattutto economiche. Se Amazon decide di non finanziare e rappresentare l’ultimo film di Woody Allen (da anni sotto processo dall’ex moglie Mia Farrow che l’ha accusato di aver violentato la figlia adottiva Dylan) lo fa per evitare perdite di fatturato, in associazione ad un nome pubblico che porterebbe tutto meno che buona pubblicit all’azienda.

Nel nostro paese “cancel culture” è stato convertito indittatura del politicamente corretto” che a conti fatti non significa letteralmente nulla. Politici o grandi nomi dello spettacolo, rivendicano la possibilità di poter dire quello che vogliono senza finire sotto accusa, in nome della libertà di parola o dell’ironia. Tre volte su quattro questa richiesta proviene da uomini bianchi, eterosessuali, cisgender, e abili, ovvero, la classe sociale più privilegiata nella nostra società. Per privilegio, non intendiamo automaticamente “cattivo”, ma esente da tutta una serie di discriminazioni che riguardano etnia, sessualità, o identità.

È una classe sociale che non si è mai dovuta preoccupare di subire attacchi omobitransfobici (è etero e anche cisgender), subire atti di misoginia (sono uomini) o risentire di battute razziste o abiliste (sono caucasici e con un corpo perfettamente abile). Il nostro sistema – in ogni contesto, dalla classe politica alla rappresentazione nei media – è sempre stato costruito, scritto, mosso in funzione del punto di vista di un uomo bianco cis-het, tanto da abituarci a considerare il suo punto di vista come l’unico possibile (quindi anche la parte lesa può aver assorbito o interiorizzato alcuni retaggi e riapplicarli inconsapevolmente).

white straight men

In realtà, questa è un’epoca in cui finalmente ogni minoranza può controbattere, senza assorbire battute, commenti, o approcci che ne ledono e svalutano la persona, bensì spiegando (incazzandosi o meno) perché non va bene, che sia un film del 1961 o la battuta di un comico in prima serata.
Cancel culture non significa non poter dire più niente, bensì porsi una domanda in più prima di dirlo, chiederci se fa davvero ridere tutti o solo chi non ne risente sulla propria pelle. Ci invita a riflettere su come la nostra esperienza non sia l’unica al mondo e quello che riteniamo innocente e bonario ha invece ripercussioni negative e pesanti sulla quotidianità di qualcun altr*.
Dire fr*cio o la n word, fare una battuta abilista o misogina, non è diventato offensivo dall’oggi al domani, le minoranze risentono di questo modus operandi da secoli, solo che oggi si ha la possibilità di farlo notare.

Cancel culture, al di là di ogni estremismo del caso, è l’occasione per metterci in discussione e proporre qualcosa di nuovo senza ricalcare un approccio ormai anacronistico per la nostra epoca.

Se un maschio bianco etero cisgender e abile si sente “imbavagliato”, e solo perché per la prima volta si rende conto che ci sono conseguenze per tutto quello che dice o fa, che non ha un passe-partout per ogni battuta, racconto, o commento che esce dalla propria bocca, e soprattutto che la sua visione del mondo non è universale.
È costretto a porsi delle domande, destrutturare dei bias che ha così normalizzato fino a renderli invisibili, e scendere da quel piedistallo, su cui consapevolmente o meno, si è crogiolato per una vita.
Ma per farlo, deve prima di tutto accorgersene.

Piaccia o meno, oggi c’è qualcun* che glielo ricorda. 


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