L’editoriale del 10 agosto di Maurizio Bettini presente su Repubblica e dal titolo “Il caso. L’asterisco toglie voce all’italiano” afferma che lo schwa, il simbolo dell’IPA (Alfabeto Fonetico Internazionale) non ha un corrispettivo fonetico. Quindi, un simbolo creato per rappresentare un suono non avrebbe un suono.
Nell’occhiello sono scritte testuali parole: “In controtendenza con la storia dell’alfabeto lo schwa e gli altri segni grafici non hanno un corrispettivo fonetico”.
Lo schwa un suono lo ha (si legge come una vocale che risulta essere un mix tra a-e-o), come insegnano peraltro i manuali di linguistica dell’università, un corso pressoché presente in tutte le facoltà.
Questo simbolo non ha piuttosto un corrispettivo “fonematico” in italiano standard. Si tratta, tuttavia, di un suono presente in alcuni dialetti meridionali, ad esempio il barese e il napoletano. Un suono che, come afferma la linguista dell’Accademia della Crusca Vera Gheno, “spesso usiamo inconsapevolmente, per esempio quando in una frase c’è una parola tronca”. Non si tratta, quindi di una parola impronunciabile e, se c’è una parte della popolazione che si identifica come non binaria e che ha deciso di utilizzarlo, probabilmente è perché ha trovato il modo attraverso quel simbolo di esprimere sé stessa.
La lingua è in continuo mutamento e le sperimentazioni non ci devono spaventare, ma vanno tenute di certo in considerazione, soprattutto nei confronti di anziani e dislessici che possono avere problemi nella lettura dello schwa. L’utilizzo di questo simbolo (che ripetiamo possiede un suono), andrebbe utilizzato con parsimonia e quanto più l’esigenza del suo utilizzo sarà forte, tanto più esisteranno degli aggiornamenti per poterla soddisfare.
Ritornando all’articolo di Bettini, seppur l’occhiello risulti erroneo, è presente una lunga e interessante digressione sugli alfabeti, un excursus storico scritto da una persona che di analisi diacroniche delle lingue se ne intende.
Bettini parte dall’invenzione dell’alfabeto, che ha rappresentato il passaggio fondamentale dall’oralità alla scrittura e che secondo i Greci sarebbe stato inventato dal dio Hermes osservando il volo di uno stormo di gru. Giunge poi a descrivere l’alfabeto “misto”, ovvero quello fatto “di segni pittografici e fonetici”, un alfabeto logografico che assomiglia ai nostri rebus. Fino ad arrivare alla nascita dell’alfabeto fonetico, che nacque verso la fine del II millennio a.C. “in un’area che comprende l’Egitto e la costa del Medio Oriente”. Attraverso la composizione dei singoli suoni chiamati “fonemi” riusciamo a “dar vita alle singole parole”: un alfabeto che, come gli altri, ebbe una sua evoluzione grazie ai processi di diffusione e mescolanza tra le varie culture.
Bettini conclude l’articolo, tuttavia, in maniera alquanto drastica, affermando quanto segue: “Lungo i secoli infatti ci si è sforzati di creare segni capaci di catturare al meglio i suoni pronunciati in una data lingua; oggi invece si vuole introdurne dei nuovi i quali, con ogni probabilità, resteranno privi di un loro corrispettivo fonico reale”.
Questo editoriale segue un dibattito (con soltanto una voce a favore e tre critiche) che nasce da un articolo del giornalista Maggiani “Io non sono un asterisco”, articolo dove viene criticata la sigla LGBT+ (“gli acronimi vanno bene per le società di affari, per le infezioni, per le cose di moda, non vanno più bene nemmeno per i partiti politici, come lo potrebbero per anime e corpi viventi”) e dove scrive di “imposizione” grammaticale. Un dibattito nel quale è intervenuto anche il noto linguista Luca Serianni che con la giornalista Simonetta Fiori parlano di “ideologie” e “cambiamenti imposti dall’alto”.
Siamo di fronte all’esatto contrario. La discussione proviene proprio dal basso: da esigenze di chi, in particolare, non si sente a suo agio perché non si identifica nel tipico binarismo di genere.
Quello che a nostro parere bisognerebbe fare è combattere un po’ di pigrizia nei confronti di un suono che non è totalmente estraneo al nostro apparato fonetico.
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Un'altra considerazione: frasi come "non sono abbastanza studiato", "vado a docciarmi" e la progressiva sparizione del congiuntivo sono quelle che definirei "esigenze dal basso" e sono frutto di una lenta modifica del linguaggio parlato. Non faccio invece fatica a capire chi, a mio parere a ragione, pensa che questi metodi per il superamento del binarismo di genere, ammesso che ve ne sia l'impellenza di superarlo, vengano visti come un qualcosa di imposto dall'alto.
Al di là del solito dibattito sulle lettere dell'alfabeto (se si vuole una parità di genere nelle parole penso a questo punto sia più utile eliminare il femminile dalla lingua italiana come nella lingua inglese), mi dico d'accordo sul fatto che la sigla LGBTecc sia un'accozzaglia storica che si è negli anni via via complicata e nella quale mi sono sempre sentito poco rappresentato. Sarebbe più utile visti i tempi creare una nuova parola per indicare quelle persone che nel passato nel presente e nel futuro i vogliono o si possano rappresentare con una identità sessuale non dominante, che alla fine è proprio quello che la sigla LGBT+ dovrebbe rappresentare senza dover aggiungere pezzettini ad ogni nuova sottocultura. Ricordiamoci che semplificare è meglio di complicare.