Lo scorso novembre il CIO, ovvero il Comitato Olimpico Internazionale, ha sancito una volta per tutte che è sbagliato presumere che le donne trans possano automaticamente avere un vantaggio fisico rispetto alle donne cisgender. “Ora è perfettamente chiaro che le prestazioni non sono proporzionali al testosterone endogeno e insito. Ciò che ci interessa davvero è il risultato”, precisava il massimo organo sportivo al mondo, affidando però agli sport individuali la possibilità di stabilire le proprie regole sull’inclusione degli atleti transgender.
Due giorni fa la FINA, ovvero la Federazione Internazionale di Nuoto, ha in tal senso vietato alle atlete trans di poter gareggiare, a meno che non abbiano completato la transizione entro i 12 anni. Una risposta decisa, e a detta di molti inaudita, dopo mesi di furenti polemiche politiche nei confronti di Lia Thomas, nuotatrice trans in grado di vincere la Divisione I NCAAA nello stile libero femminile.
Una decisione che ha scatenato le organizzazioni LGBTQ+ internazionali, definendola discriminatoria, mentre gli esperti hanno condannato la FINA per il suo approccio “non scientifico“. D’altronde proprio il CIO aveva lavorato per anni, affidandosi ad esperti del settore, prima di arrivare alle conclusioni di novembre. Ma com’è possibile prendere due strade agli antipodi, in relazione al medesimo argomento? C’è da ricordare come l’indecorosa discussione esplosa soprattutto in America, con il partito repubblicano trainato da Donald Trump a soffiare sul fuoco della transfobia, sia in realtà vecchia di quasi mezzo secolo.
Il primissimo dibattito sulla partecipazione delle persone trans nello sport risale infatti agli anni ’70, con la tennista Renée Richards, oggi 87enne e prima tennista trans* della storia. Completata la transizione nel 1975, Richards chiede di poter gareggiare agli US Open. Il torneo accetta una sua partecipazione e scoppia il caos. La Women’s Tennis Association (WTA) e la United States Tennis Association (USTA) ritirano il loro sostegno agli US Open. La maggior parte delle tenniste si ritira per protesta. A quel punto USTA e WTA introducono uno screening genetico per le giocatrici, chiamato a determinare i cromosomi di una persona. Richards si rifiuta di sottoporsi al test e le viene negata la partecipazione agli US Open, a Wimbledon e agli Internazionali d’Italia. A quel punto Renée (nome da lei scelto perché in francese significa “rinata”) si rivolge alla Corte Suprema di New York, sostenendo che i suoi diritti civili erano stati violati, sottolineando come la sua partecipazione al torneo equivalesse “all’accettazione del suo diritto di essere una donna“. La Corte Suprema si esprime in suo favore, con una sentenza storica per i diritti delle persone trans, rimarcando come obbligarla ad uno screening fosse “gravemente ingiusto e discriminatorio”. “Questa persona ora è una donna“, sentenziò il giudice Alfred M. Ascione, permettendole di giocare agli US Open. Una volta in campo, Richards perde al primo turno contro Virginia Wade ma arriva in finale nel doppio. Dopo il ritiro da giocatrice, Renée ha allenato Martina Navratilova, facendole vincere due Wimbledon.
45 anni dopo nessuno poteva immaginare che ci saremmo ritrovati a parlare ancora una volta di atlete trans ‘favorite’ rispetto alle atlete cisgender. E invece i diritti delle persone trans si sono trasfomati in una guerra culturale che non conosce più confini, abbracciando le destre di mezzo mondo e le femministe estreme. Nel 2003 il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) aveva elaborato la sua prima politica sulla partecipazione delle persone trans nello sport. Una politica incredibilmente severa: le persone trans dovevano sottoporsi a un intervento chirurgico ed essere in terapia ormonale per un determinato periodo di tempo prima della partecipazione. Dovevano anche avere il riconoscimento legale del genere. Nel 2015 la prima modifica, con le donne trans autorizzate a dichiarare il proprio genere ma al tempo stesso costrette a dimostrare di avere un livello di testosterone inferiore a 10 nanomoli per litro ad almeno un anno dalla gara. Grazie a queste regole Laurel Hubbard è diventata la prima donna trans a partecipare alle Olimpiadi, nel sollevamento pesi, nel 2021. È stata inondata di insulti e fake news. È uscita al primo turno eliminatorio, per poi ritirarsi.
Successivamente è arrivata Lia Thomas, fenomeno universitario della piscina, con Trump che ha promesso di bandire le atlete trans dallo sport nel caso in cui dovesse tornare alla Casa Bianca. In Italia Salvini e Meloni hanno cavalcato la retorica transfobica contro suddette atlete, mentre Boris Johnson, nel Regno Unito, ha dato ragione a Trump, parlando di “uomini che non devono competere in gare femminili“. Nel frattempo una ventina di stati in America hanno emanato leggi che vietano alle ragazze e alle donne trans di gareggiare in squadre sportive femminili. La FINA, con la decisione presa nel fine settimana, ha pericolosamente aperto una strada, ipotizzando addirittura la nascita di una categoria aperta per le atlete e gli atleti trans, alimentando ulteriormente un dibattito che dovrebbe fondarsi unicamente su aspetti medici e scientifici, senza cedere ad un’isteria generalizzata che il più delle volte fa rima con transfobia.
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