Uno dei primi testi in difesa dell’omosessualità dell’era moderna è un pamphlet scritto nel 1795 e pubblicato per la prima volta nel 1978. Jeremy Bentham, il suo autore, era uno dei filosofi inglesi più influenti del tempo. Tra i padri dell’utilitarismo, le sue idee in merito non devono essere considerate né come una presa di posizione né tanto meno come un improbabile coming out. Al contrario, sono un riflesso intellettuale, una conseguenza della sua dottrina filosofica fondata sul principio di assicurare la maggiore felicità al numero più alto di individui. Un calcolo molto complesso in cui dovevano rientrare utilità, piacere e assenza di dolore.
In italiano, il pamphlet è disponibile in due edizioni, entrambe di qualche anno fa. La prima è contenuta nella miscellanea Libertà di gusto e opinione (Dedalo, 2007) col titolo Reati contro se stessi: la pederastia; la seconda invece è un volumetto a sé, intitolato Difesa dell’omosessualità (Il melangolo, 2009). Leggere oggi il testo di Bentham significa tornare molto indietro nel tempo. Significa scontrarsi con un lessico ormai tramontato, con giudizi intransigenti anche se “amici” e con argomentazioni che nessuno oggi userebbe per difendere l’omosessualità.
Stessa cosa vale per i termini. Quelli che Jeremy Bentham usa nel suo scritto sono termini decaduti da tempo come “reati contro natura”, “sodomia” e “pederastia”. La quale non indica necessariamente l’amore per i ragazzi o gli adolescenti. Allora la disponibilità linguistica era limitata e i termini in uso si preoccupavano più di stigmatizzare che di chiarire. Bentham stesso non era a favore dell’omosessualità. Non difendeva questa pratica in quanto tale e di certo non la raccomandava, tuttavia non vedeva nemmeno motivi validi per condannarla. Secondo le sue tesi, non esistevano ragioni morali né giuridiche che giustificassero la punizione dei pederasti da parte della Legge.
La dottrina utilitaristica permetteva a Bentham di valutare l’omosessualità in base agli effetti che produceva sulla società e sullo Stato. Ieri come oggi, in pochi erano consapevoli di come stessero davvero le cose, dunque la difesa migliore che potesse imbastire doveva puntare a fare chiarezza.
Jeremy Bentham tocca i punti chiave fin dalle prime righe. Le sue affermazioni sono nette e radicali allo stesso tempo. Come quando sostiene che i pederasti, pur ricavando il piacere in modo “distorto”, non arrecano male o dolore a nessuno. Una rivoluzione concettuale! Anche perché così facendo dimostrava che i presunti reati di cui venivano incolpati si basavano molto sul pregiudizio e molto poco sui fatti. Quasi sempre – aggiunge – i danni provocati da tale condotta erano sopravvalutati o inesistenti, e di conseguenza anche le condanne erano ingiuste e le pene follemente severe.
Bentham fa una piccola rassegna delle accuse più comuni contro la sodomia, a cui poi risponde punto per punto. I suoi argomenti sono il rovescio di quelli usati da generazioni di giudici, teologi e moralisti. Come farebbe anche un bravo avvocato di oggi, li prende e li torce contro di loro. Bentham fra l’altro era pure un giurista brillante, quindi certe cose le sapeva maneggiare. Certo, leggere oggi gli esempi che porta fa sorridere, ma solo perché è passato davvero tanto tempo e oggi sappiamo parecchie cose che lui ignorava. All’epoca riferirsi alla Storia e citare i classici del mondo greco-romano era quasi un dovere, anche perché serviva ad aumentare il prestigio delle proprie tesi. E Bentham, che studiava il latino da quando aveva cinque anni, proprio lui no, non poteva rinunciarvi.
Al tempo in cui Jeremy Bentham scriveva il suo pamphlet, l’omosessualità era vista come un vizio che insidiava mariti e promessi sposi. Esclusi i religiosi, non c’erano altre categorie da prendere in esame, pertanto la sua breve casistica non poteva essere più completa di così. Fra gli uomini che il filosofo inglese difende non ci sono gay così come li intendiamo oggi. Ogni uomo era indirizzato verso l’eterosessualità fin dalla nascita e bene o male consumava il matrimonio con la propria moglie. Essenzialmente, costoro erano dei fedifraghi dai gusti molto discutibili, che invece di alzare sottane calavano le brache. Le proprie e quelle degli altri.
La difesa dell’omosessualità che Bentham aveva in mente non era la difesa di un orientamento ma di un costume. Un costume considerato deprecabile da lui per primo, ma che, non mettendo a rischio la morale eterosessuale né altro, andava tollerato. Era una questione di libertà, dunque una cosa molto seria.
Jeremy Bentham non era neppure il difensore di una categoria di persone. I suoi “assistiti” erano uomini che si macchiavano di quel particolare tipo di reato, ma per il resto erano esattamente uguali a tutti gli altri. Il nostro filosofo difendeva l’omosessualità come pratica, ma non gli omosessuali in quanto sé stessi. Il concetto di “gay” era estraneo al suo mondo quanto la parola stessa, e probabilmente non lo contemplò mai. Sarebbe quindi sbagliato considerarlo un paladino dei diritti LGBT ante litteram, tuttavia lo sarebbe anche negargli i meriti che ha. Fra questi, il merito di aver ampliato e difeso il concetto di libertà in un momento in cui era tutt’altro che scontato, contribuendo in questo modo a costruire una delle prime correnti riformiste della Vecchia Europa. Ossia una delle antenate di quei gruppi e di quei partiti che, secoli dopo, avrebbero finito per abbracciare la causa dei diritti civili.
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