20 anni fa Emanuele Crialese incantava il mondo con Respiro, Grand Prix al Festival di Cannes. Poi sono arrivati due Leoni d’Argento a Venezia 2006 e a Venezia 2011 con Nuovomondo e Terraferma, seguiti da 10 anni di silenzio. Fino ad ora, al Concorso di Venezia 79. L’immensità è il 5° film del regista romano, riuscito a raccontare la propria storia di transizione insieme ai co-sceneggiatori Francesca Manieri e Vittorio Moroni.
Ambientato negli anni ’70, con il bianco e nero tv pronto a lasciare spazio al technicolor e la dance a travolgere le case d’Italia per merito di Rumore di Raffaella Carrà, L’Immensità racconta la storia di una famiglia. Clara e Felice non si amano più, continuano a stare insieme solo e soltanto per i figli, su cui Clara riversa tutto il proprio desiderio di libertà. Adriana, la più grande, ha dodici anni e rifiuta il proprio nome, la propria identità, perché fermamente convinta di essere nata sbagliata, di arrivare dallo spazio, con genitori alieni, di essere un maschio, tanto da volersi chiamare Andrea…
L’Immensità è il film più dichiaratamente personale di Crialese, che ha impiegato un decennio per riuscire a realizzarlo, a raccontarlo adeguatamente, a raccontarsi. Nel farlo il regista di Respiro percorre due binari separati. Da una parte la mamma di origine spagnola fortemente depressa, vittima di abusi da parte di suo marito, che la tradisce sfacciatamente. Dall’altra i tre figli che navigano a vista in questo tsunami famigliare, con il più grande, Adri, che disperatamente cerca un miracolo. Il miracolo di essere un ragazzo, anche fisicamente.
Crialese e i due sceneggiatori si sono concessi ampia libertà di scrittura, nel rappresentare parte dell’infanzia del regista. Dal piccolo schermo prendono letteralmente vita i mitici varietà Rai, con Rumore da ballare in cucina mentre si apparecchia la tavola e il leggendario duetto Carrà – Celentano con Prisencolinensinainciusol che prende improvvisamente forma in chiesa (è la scena migliore del film), tra chierichetti danzanti e una Penelope Cruz bionda Raffaella. Proprio Penelope, un anno fa Coppa Volpi a Venezia per Madres Paralelas di Pedro Almodovar e qui anche nei panni di Patty Pravo, domina in lungo e in largo la scena, interpretando un ruolo che ormai le calza sempre più a pennello. Quello della mamma problematica, all’interno di un rapporto d’amore platealmente naufragato, luminosa e abbagliante tanto nella bellezza quanto nella bravura.
Crialese va a caccia di sguardi tra i protagonisti, senza però mai andare fino in fondo a nessuno dei temi trattati. Tutto o quasi rimane in superficie, a galleggiare. Il malessere di Clara, i tradimenti di Felice, il complicato legame con la suocera, il rapporto tra Adri e una misteriosa ragazzina conosciuta in un campo tirato su alla bene in meglio tra le fresche frasche della Capitale, la sconsiderata reazione del fratello di Adri ai tumulti famigliari, i molteplici confronti tra Adri e sua madre, talmente bella da infastidirla. L’eleganza stilistica di Crialese è riconoscibile, così come è impeccabile la ricostruzione di un’Italia anni ’70, ma il delicato tema trattato si limita ad abbracciare fantasiose visioni che vedono Adri interpretare Adriano Celentano e Johnny Dorelli, agognando un corpo maschile che per ora può solo immaginare, specchiandosi nei divi della tv.
C’è inoltre un problema banalmente interpretativo. I tre giovani protagonisti, Luana, Patrizio e Maria Chiara, non hanno mai recitato prima e si vede. Non tengono la scena, non riescono a gestire un confronto con un gigante come la musa almodovariana. Luana, vera protagonista nei panni di Adri, fatica a gestire i momenti di rabbia, dando inevitabilmente all’intera operazione una sensazione di posticcio, di forzato. Anche Vincenzo Amato, attore feticcio di Crialese, non riesce a rendere credibile un uomo tanto violento e meschino come Felice, bidimensionale anche nella scrittura.
A lungo atteso, temuto e cullato dallo stesso Crialese, talmente coinvolto dal non essere stato forse in grado di prenderne le giuste distanze, l’Immensità appare come un film dall’enorme potenziale raramente espresso, difficilmente inquadrabile e faticosamente gestito dal suo stesso autore, probabilmente narrativamente parlando talmente tanto orgogliosamente ‘libero’ dal non essere riuscito a dargli una forma specifica, liberandosi comunque di una storia tanto personale e privata quanto evidentemente necessaria. E per il regista, al di là della completa riuscita o meno della pellicola, non poteva esserci riconoscimento migliore.
Voto: 5
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