A Odessa, città portuale nel sud dell’Ucraina che da settimane aspetta con timore l’attacco dei soldati russi dal Mar Nero, c’è un locale LGBTQ+ che è diventato punto fermo della resistenza ucraina. Il Libertine, costretto a chiudere alle 5 del pomeriggio senza possibilità di vendere alcolici causa legge marziale. Sergej, 40enne che gestisce il locale, ha così deciso di utilizzare la propria cucina per dare da mangiare alla guardia civile e ai militari di guardia nei check point della città.
Intervistato dall’inviata del Corriere della Sera, l’uomo ha raccontato la sua storia. Nato in Moldavia, Transnistria, Sergej ha cominciato a vivere pienamente solo una volta arrivato in Ucraina: “lì la vita lì per un gay era terribile“, confessa oggi. “Non potevo dirlo a nessuno, solo mia madre lo sapeva. Così, quando avevo 19 anni me ne sono andato, anche perché metà della mia famiglia è ucraina”.
“Solo un mese fa il nostro problema era decidere dove andare a ballare la sera e ora guarda qui“, sottolineano due donne che danno una mano in cucina all’interno del locale, mentre Sergej è sicuro: “Se Putin dovesse mai arrivare qua, ci farebbe uccidere uno per uno”.
Non che l’Ucraina sia il paradiso dei diritti LGBTQ+, anzi. Ne abbiamo approfonditamente parlato, ma proprio a Odessa e a Kiev la ‘tolleranza’ è maggiore, soprattutto se paragonata all’Ovest molto più conservatore. Non a caso decine e decine di donne trans* vengono bloccate alle frontiere, perché sui documenti appaiono ancora come uomini, e spedite a combattere, visto e considerato che è in vigore la leva obbligatoria.
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