La lotta per i diritti si fa sempre più intricata e interconnessa. Qualcuno è intimorito da questa complessità. Altri la vivono come un arricchimento. L’intersezionalità oggi è parola all’ordine del giorno, entrata faticosamente anche nelle schiere più incazzate dell’attivismo femminista, LGBTQIA+ o ambientalista. Poco alla volta, ognuno è uscito, o sta uscendo, dalla propria crisalide di oppressione e conseguente avversione a essa, per abbracciare le ragioni della lotta di chiunque venga annichilito dal sistema patriarcale e capitalista.
È una battaglia lunga, piena di insidie: viviamo perennemente sotto l’ombra del brain washing, con cui il potere ammalia e concupisce le nuove rivoluzioni. Ma questo non deve intimorire i migliori propositi di liberazione.
Negli ultimi decenni, in molti – tra studiosi e attivisti – hanno riconosciuto quanta diversità e quanta complessità ci sia nella nostra società, così come in natura (chiedendosi anche fino a che punto questi due aspetti siano scindibili). In questo modo, tramite una chiara decodifica delle diverse forme di oppressione, si arriva a sconfinare la dicotomia eteronormativa imperante e nominare una matrice comune nella lotta per i diritti, la rappresentazione e l’autodeterminazione sul piano personale e comunitario.
Una sempre più vasta rappresentanza della comunità LGBTQIA+, sopratutto quella attiva nella comunicazione politica, economica e sui media, ragiona sulla necessità di unire in un unico coro le varie voci che compongono il cambiamento di cui ora abbiamo bisogno, senza più attese. Perché il mondo è al collasso e oggi è il tempo della rivoluzione ambientalista, antispecista, transfemminista, LGBTQIA+, di e, in verità, per chiunque sia ogni giorno oppresso dall’attuale sistema invalidante.
Nel 1949, Simone de Beauvoir nel Secondo Sesso, per raccontare la nascita, l’evoluzione e il consolidamento della società patriarcale, parte da un assunto base: dal punto di vista strutturale, l’uomo è più forte della donna. Da questa certezza biologica si arriva al controllo dei corpi e del ruolo sociale delle donne, con alti e bassi nel corso dei secoli.
Allo stesso modo, tramite una stratificazione molto complessa che passa anche attraverso la morale giudaico-cistiana e il colonialismo, si arriva a una sottomissione, quasi totale, di tutto quel che non è essere umano di sesso maschile, bianco, eterossessuale, cis e abile.
“Queer Nature” è il titolo di un saggio editoriale scritto da Caffyn Kelly e uscito nel 1994 sulla rivista UnderCurrents: Journal of Critical Environmental Studies. È la prima volta che viene introdotto il concetto di Queer Ecology.
Con Queer Ecology si tenta di identificare un movimento che osserva la natura, il sesso e la biologia attraverso le teorie queer, attingendo da studi di genere, dall’ecofemminismo e dalla giustizia ambientale per opporsi alla visione eteronormata della natura.
Con Queer Ecology si tenta di sovvertire i dogmi dettati dalle deduzioni – fortemente influenzate dalla cultura patriarcale – di scienziati, biologi, psicanalisti e studiosi di vario genere; provando a contemplare una visione fluida e orizzontale che abbracci la natura nella sua totalità e nel suo divenire costante, senza barriere o categorie.
La Queer Ecology nasce dallo studio combinato fra la teoria queer e i movimenti eco-femministi nati negli anni ’70, e ne rielabora le idee applicandolo al mondo naturale e a tutte le sue componenti non-umane. Tentativi simili sono riscontrabili negli studi di Michel Foucault e Judith Butler.
Con l’uso del termine queer – che negli anni ha cambiato più volte significato – si abbraccia tutta la comunità LGBTQIA+ e non solo.
Col termine queer si riconosce l’impossibilità di suddividere il mondo in categorie, di controllare la società sulla base di assunti falsi e semplicistici.
Con queer vogliamo delineare la complessità del cosmo; riappropriarci del senso di “strambo” per rivendicare la nostra natura incontrollabile e multiforme.
Secondo gli Oxford Dictionaries, il verbo “queer” significa rovinare o danneggiare. Nella teoria queer si usa questo termine come verbo con l’intenzione di rifiutare o rovinare le dicotomie e i modelli binari, ritenuti responsabili della marginalizzazione di tutto ciò che non vuole o non è classificabile, o ascrivibile a una norma vigente.
Così, l‘ecologia queer prova a sconfinare oltre la divisione uomo/natura, sfuma i contorni e connette l’umano con tutto ciò che non è umano. Perché l’errata idea di superiorità che ci trasciniamo da millenni si basa su infondate convinzioni che ci stanno portando alla rovina, trascinando nel baratro noi stessi e tutto ciò che ci circonda.
Abbiamo bisogno, ora più che mai, di spogliarci della nostra visione invalidante e considerare la complessità della natura, di introdurre un nuovo modo di percepire il circostante, come parte di noi e della nostra permanenza su questa terra.
Solo riformulando il concetto di natura, con cui attualmente indichiamo tutto ciò che non è umano – dalla vegetazione agli animali, possiamo renderci conto di come le forme di oppressione siano interconnesse e la lotta per un rovesciamento del sistema patriarcale e capitalistico possa funzionare solo se uniti e consci delle altrui potenzialità.
In un recente editoriale abbiamo provato a spiegare il bisogno di celebrare “l’indefinito, il contraddittorio, diamo possibilità ai nostri corpi di costruirsi, disfarsi, e ricomporsi più volte, senza attenersi ad un libretto delle istruzioni. Sfuggiamo al modello precostituito e celebriamo le complessità piuttosto che bacchettarle”.
“In una società che non ci tutela e cerca di incasellarci in ogni ambito del quotidiano, dovremmo essere luogo d’accoglienza per la pluralità di esperienze, per la scoperta di sé, sottraendoci alle aspettative di un canone”.
In copertina: Martial Raysse, Ici plage, comme ici-bas, (2012), Parigi, Pinault Collection
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