Queerometro: non sei abbastanza queer?

Celebriamo l’indefinito, il contraddittorio, diamo possibilità ai nostri corpi di costruirsi, disfarsi, e ricomporsi più volte, senza attenersi ad un libretto delle istruzioni.

Luis Alberto Rodriguez, fotografo, 2021
Photo: Luis Alberto Rodriguez, 2021
4 min. di lettura

Le persone queer hanno ben presente la sindrome dell’impostore: la sensazione che ogni risultato ottenuto non ce lo meritiamo, che qualcuno se la cava meglio di te e tu non sei mai la persona giusta nella stanza.

La tua intera natura cozza con le aspettative dello status quo e – con gradi variabili di consapevolezza, a seconda dei casi (e le generazioni) – hai passato buona parte della tua crescita a cercare di rientrare nel ruolo richiesto: sai che un’interpretazione può essere sempre più convincente fino a renderla reale, pur restando una recita.

Abbiamo cercato di imbavagliare la nostra identità e tutti i nostri desideri in funzione di quel modello, schivando ogni trappola che ne dimostri il contrario.
Poi un giorno fai coming out, agli altrǝ e a te stessǝ e la recita finisce: scoprirsi queer è quel momento in cui puoi accorgerti che tutto quello che hai cercato di sopprimere può uscire allo scoperto e camminare per strada.

C’è un senso di liberazione la prima volta che torni nel mondo: anima e corpo sembrano ricongiungersi e la cassa toracica si espande, come se avessi imparato a respirare di nuovo.

Che fai ora che sei queer?
Cosa puoi cambiare, cosa resta invariato?

Spesso la prima rassicurazione proviene dal fatto che non c’è una reale separazione: sei sempre quellǝ di prima, sei sempre suo figliǝ, sei sempre suo amicǝ.
O forse no, ti cambi dalla testa ai piedi, c’è un makeover, puoi indossare quello che vuoi, parlare come vuoi, uscire con chi vuoi.

Ma se quello che vuoi non fosse così distante da quello che facevi prima?


Quando cresciamo in un ambiente eteronormato, ognunǝ di noi si abitua a misurare il proprio “queermetro”: è piuttosto facile sentirsi la persona più queer della stanza quando sei l’unica.

Ma quando scopri altre persone LGBTQIA+ scopri che il mondo queer come quello eterosessuale ha una sua cultura, i propri schemi ripetuti, i modelli che si assomigliano tra di loro e accomunano un’ampia fetta di chi entra a farne parte.

Quei modelli diventano un segno di riconoscimento, argomento di conversazione, e possibilità di integrarsi in un gruppo. Se ieri pensavi di aver scritto QUEER in fronte con delle lucine al neon ovunque andassi, oggi sei immersǝ in questo ginepraio di citazioni, riferimenti, e punti comuni che puoi rendere tuoi o distaccartene.

Flesh Manchester (1993) Photography by Stuart Linden Rhodes
C’è un test da superare per definirci queer? Quando possiamo sentirci validǝ così come siamo?

Agli albori del mio coming out ero vergine e una delle domande che mi veniva fatta più volte, e spesso da persone della community, era “Ma se non l’hai mai provato prima, come fai a sapere che ti piace?” indirizzato sia al fatto che non ero mai andato a letto né con le ragazze né con gli uomini.

Occorreva un patentino, una verifica che accertasse la mia validità come ricchi*ne.
Dall’altra parte, le persone eterosessuali cadevano dal pero, ribadendo che “non l’avrebbero mai detto” e “tutto sommato si vede molto meno di altri”, ristabilendo quella scala gerarchica che mi voleva più vicino ad un modello rispetto all’altro.

Cosa c’è da fare per essere abbastanza queer?
Ci stiamo mostrando o dimostrando?

Se appartieni ad un gruppo marginalizzato è costante questa esigenza di provare al mondo che esisti, e quando le parole non sono sufficienti occorre un’immagine riconoscibile, qualcosa che ci faccia assomigliare il più possibile al nostro nuovo modello di riferimento.
Sembra che prima o dopo, continui ad esserci un forte gatekeeping sulla nostra identità: fuori dalla comunità queer le persone etero ci chiedono di rispecchiare lo stereotipo che la società ci ha dipinto addosso, dentro la comunità per farnne parte occorre una condivisione non solo culturale quanto di esperienze.

Dalle persone trans* che sindacano sull’essere trans* di chi non porta avanti un’operazione o non manifesta un’espressione di genere abbastanza in linea con il binarismo, fino all’invisibilità delle persone bisessuali, derise o raramente contemplate nell’immaginario.

La verità è che non siamo così abituat* a vedere delle persone queer nel mondo, siamo tantǝ ma sempre con una rappresentazione marginale, nella vita di tutti i giorni come nei media.
I modelli che costituiscono il nostro immaginario sembrano ancora un’eccezione o una sorpresa, e la nostra formazione  si aggrappa o si scontra con quello che siamo abituatǝ a vedere e assorbire.

Non riconoscersi in quei punti in comune ci fa sentire di nuovo non adatti, fuori posto, invalidando ancora una volta quello che viviamo.
Gli stereotipi ci rassicurano, ci offrono un nuovo itinerario da seguire, delle caselle da spuntare che sembrano confermarci di far parte di quel gruppo e permetterci un posto nel mondo.

Ma la realtà è più stratificata di così: piuttosto che ricercare un nuovo schema da perseguire, dovremmo ricordarci che il mondo queer si discosta da ogni schema.
Celebriamo l’indefinito, il contraddittorio, diamo possibilità ai nostri corpi di costruirsi, disfarsi, e ricomporsi più volte, senza attenersi ad un libretto delle istruzioni.
Sfuggiamo al modello precostituito e celebriamo le complessità piuttosto che bacchettarle.
In una società che non ci tutela e cerca di incasellarci in ogni ambito del quotidiano, dovremmo essere luogo d’accoglienza per la pluralità di esperienze, per la scoperta di sé, sottraendoci alle aspettative di un canone.

Perché se anche nel mondo LGBTIQIA+ iniziamo a imporre verità assolute o biglietti d’ingresso, finiremo per imborghesirci sempre di più, creando nuove gabbie per dirci che non siamo abbastanza.

York Milk & Honey 1994 Photography by Stuart Linden Rhodes
York Milk & Honey (1994) photography by Stuart Linden Rhodes

 

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