Oggi più di ieri, le parole ci interessano. Dall’interazione quotidiana ai social, ai programmi televisivi fino alla prima pagina del giornale, ci stiamo educando – a passo di lumaca – a selezionare le parole con la cura che meritano. Parzialmente per paura di scivolare su una buccia di banana e venir travolti da una grandissima pala di sterco equino, dall’altra perché, per fortuna, stiamo imparando a non ripetere le parole a pappagallo: osservarle da più angolazioni, studiarle, comprenderle in relazione ad una realtà che va oltre il palmo del nostro naso, e se necessario, risparmiarcele.
Le parole ci pesano, ma rit*rdato ci pesa meno delle altre : la sento in bocca al fornaio, a chi ha fatto il diavolo a quattro perché i due comici dicono fr*cio in prima serata, a chi si è incazza come una iena con il rapper che usa epiteti misogini. La r-word cade a fagiolo ogni tre per tre come una cattiva abitudine che ripetiamo con l’autopilota, nella speranza che nessuno se ne accorga.
Nel 2004 la Special Olympics –associazione fondata nel 1971 che promuove attività sportive per persone con disabilità intellettive e relazionali – ha chiesto l’abolizione totale del termine. Lo slogan è “Spread the word to end the word” (“diffondi la parola per eliminare la parola”, capito? In inglese suona meglio). “Purtroppo questa parola è diventata un luogo comune nella nostra società. Tutti la usano abitualmente, giovani e adulti.” spiega l’associazione “Sebbene in molti non ne colgono l’impatto offensivo, la verità è che fa male, anche se chi la usa non vuole offendere.” La Special Olympics continua da anni, attraverso un lavoro di sensibilizzazione e divulgazione nelle scuole, ad una comunicazione che non solo elimini dal vocabolario specifiche parole, ma riesca ad integrare nel dibattito pubblico il punto di vista delle persone oggetto di scherno, quelle su cui effettivamente un termine del genere ha potere distruttivo.
Nel 2010, Barack Obama (dopo essersi scusato per una battuta infelice sulla Special Olympics durante la campagna elettorale del marzo 2009) ha firmato la Rosa’s Law, legge che prende il nome da Rosa Marcellino, all’epoca bambina di nove anni con sindrome di down, mobilitata legalmente insieme ai suoi genitori per rimuovere i termini “mentalmente rit*rdato” o “ritardo mentale” dalla politica statunitense, sul posto di lavoro o nei programmi educativi, sostituendoli con varianti più appropriate (tipo “disabilità intellettiva”)
Sì, ma nella comunicazione quotidiana? La r-word ci agita abbastanza da non dirla ad alta voce in mondovisione ma non così tanto da evitarla insieme agli amici, per riferirci – ironicamente o meno – a qualcuno che semplicemente non ce la fa.
“Il termine “ritardo” è la versione colloquiale di “ritardo mentale”, ovvero la definizione che medici e psicologici usavano per per descrivere persone con una significativa menomazione intellettiva” scrive Silvia Galimberti, giornalista e responsabile della comunicazione per Briantea84, associazione paraolimpica. Galimberti spiega che seppur inesatta e in disuso, sia nell’ambito medico che tra le persone coinvolte, la R-word è stata normalizzata nel linguaggio comune come sinonimo di “stupido” o “scemo”. In quest’ottica l’utilizzo della parola è privo di senso, perché la r-word ha un significato completamente diverso ed esistono mille altri termini più adatti per esprimere quello che vogliamo davvero dire. Ma “rintronato” o “tonto” non renderebbero il concetto, perché la r-word è utilizzata per identificare una stupidità più grave, che ha effetti collaterali su noi stessə e chi ci sta intorno. Pur non rivolta ai diretti interessati e tecnicamente sbagliata, la r-word rafforza una narrazione che ha stufato chiunque: ovvero che chi ha difficoltà intellettive è un incapace che non sa stare in società.
“Perchè mi sento ferito quando mi chiamano “ritardato”?” scrive John Franklin Stephens, ambasciatore mondiale della Special Olympics, in un articolo per Washington Post: “Ammettiamolo, nessuno usa questa parola come complimento. Nella migliore delle ipotesi è usata come sinonimo di “stupido” o “perdente” e nel peggiore dei casi è usata con lo scopo di etichettarmi come reietto – quindi come se fossi una cosa, non una persona. Ma io non sono stupido. Non sono un perdente. Non sono una cosa. Sono una persona.”
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