A proposito dellə bambinə trans*

Perché ogni polemica sulla salute delle giovani persone trans dice molto più dei vostri pregiudizi che della loro identità.

A proposito dei bambini trans*
I bambini trans non vanno curati, bensì ascoltati e seguiti
4 min. di lettura

Il 5 Febbraio il dipartimento della salute del Texas ha rimosso dalla propria pagina ufficiale ogni risorsa o contatto per la salute LGBTQIA+, eliminando tra le quattro organizzazioni indicate per la prevenzione al suicidio, l’associazione The Trevor Project (specializzato nello specifico caso dei giovani LGBTQIA+ a rischio suicidio). Al Texas non piace la comunità LGBTQIA+, in primis tutto ciò che ruota attorno lə bambinə trans. Per Ken Paxton, procuratore generale dello stato, definisce la rassegnazione chirurgica del genere “mutilazione dei genitali femminili” e il governatore Greg Abbott ha invitato il dipartimento della salute a bloccare ogni genere di assistenza sanitaria, in modo da conseguire indagini e verifiche di ogni procedura di transizione sui minori, considerata “abusiva e invadente”.

È solo l’ennesimo, avvilente caso di un uomo pronto a sindacare sul corpo altrui e ridurre le persone trans* ad argomento di dibattito tra curva sud e curva nord, metterle sotto esame, studiarle attraverso l’esclusiva cis-lente che brama verità in mano, sin dall’alba dei tempi. Ma quando entrano in gioco i più piccoli la transfobia è legittimata dal terreno fertile delle “buone intenzioni”: non sono troppo piccoli per sapere la propria identità? Le cure non sono invasive? E se ci ripensano? Li stiamo influenzando?

A proposito dei bambini trans*
The Trevor Project, una delle più grandi associazioni per prevenire il suicidio delle persone LGBTQIA+, è stata rimossa dal dipartimento della salute del Texas.

Partiamo dalle basi: non nasciamo sapendo che siamo maschi o femmine. Lo capiamo, valutiamo, scopriamo relazionandoci con il mondo esterno. Il mondo esterno ci fornisce dei codici prestabiliti, che oggi più di ieri, stiamo imparando a gestire a nostro piacimento proprio perché neanche questi codici possono saperne più di noi. Rosa non è femmina e blu non è maschio, ma ci vengono cuciti addosso prima che impariamo a valutarli o scoprirci. Quindi intanto l’indottrinamento già c’è di default, e proviene proprio dalla parte più conservatrice.

Nell’arco della nostra infanzia, in un modo o nell’altro, tutt* ci ritroviamo a far qualcosa di “non conforme” ai codici di genere: i bambini potrebbero giocare con le bambole, le bambine con i camion, qualche bambino potrebbe volere un costume da principessa, qualche bambina il completo da ninja. Questo li rende automaticamente transgender? L’identità di genere si muove lungo uno spectrum d’infinite possibilità, oltre gli unici stereotipi della narrazione mainstream, che vanno dal “sentirsi intrappolati nel proprio corpo” a “ho sempre fatto i giochi da femmina”. Non che gli stereotipi non abbiano la loro aderenza con la realtà o non meritino ascolto, ma non sono l’unica argomentazione possibile, e spesso l’esperienza trans è più sfumata e variegata di quanto ci offrono i media.

In generale, voler indossare un vestito qualche volta o giocare a fare il maschio, non conferma che un bambino sia transgender o non binario. Al contempo se quel bambino insiste ripetutamente, a cadenza regolare, a distanza di giorni, mesi o anche anni, di appartenere ad un genere opposto a quello assegnato alla nascita, gli psicologi invitano ad accogliere quella richiesta prima che contestarla. La disforia di genere (quindi il costante senso di disagio, vergogna, e malessere verso il proprio corpo o i tratti riconducibili al genere assegnato alla nascita) non è una fase come tante, ma qualcosa che merita il consulto di esperti o un’assistenza medica. Per assistenza medica, non si intende “riallineare” con il genere assegnato e “curare” ogni inclinazione alla transessualità, ma ascoltare, validare, e seguire queste richieste valutando insieme al paziente quale percorso intraprendere (questo perché anche lə bambinə trans* non sono tuttə uguali, e non è obbligatorio certificare una disforia di genere per essere  “trans”)

Prendere ormoni o bloccanti ipofisici è pericoloso per dei minori? I bloccanti possono essere utilizzati in pubertà, in quanto devono “bloccare” qualcosa, che sia il ciclo mestruale, o la crescita dei peli, o qualunque grande cambiamento, ma non sono definitivi. “Sono farmaci che sospendono lo sviluppo puberale e sono completamente reversibili” spiega la dottoressa endocrinologa Alessandra Fisher: “S’iniziano a somministrare quando comincia lo sviluppo, intorno ai 12 anni, l’età in cui i cambiamenti del corpo creano particolare disagio, causando ansia e depressione. Lo sviluppo si ferma: ai maschietti non cresce la barba; alle femminucce il seno. Questo offre tempo agli psicologi per chiarire la diagnosi. Nei Paesi in cui sono consentiti, si possono dare al massimo per quattro anni. Dopodiché, alla sospensione, lo sviluppo riprende senza problemi. Se invece l’adolescente è diventato maggiorenne, è stata accertata la disforia di genere e il desiderio di iniziare la terapia ormonale e la transizione di sesso, la persona può affrontarla in una condizione fisica avvantaggiata.”

 

A proposito dei bambini trans*
Gracie, una bambina trans di 7 anni, in transizione sociale da quando ne ha 4 (Pleasant Hill, California)

L’ampia maggioranza dei giovani che prendono ormoni o bloccano la pubertà non ha alcun ripensamento del percorso intrapreso: un ampio studio su giovani transgender dei Paesi Bassi rileva che soltanto l’1.9% ha scelto di non continuare il trattamento.
Per chiunque è in pre-pubertà, i medici consigliano caldamente una “transizione sociale”: senza ricorrere a ormoni o medicinali, lə bambinə può presentarsi con il nome, il genere, e l’espressione che preferiscono. La transizione sociale non è irreversibile e non causa alcun danno alla salute mentale e fisica.

Fermare tutto questo, impedendo anche  un’accurata sensibilizzazione all’argomento, non fa altro che provocare l’effetto opposto, incrementando ulteriormente il tasso di depressione e suicidio nelle persone LGBTQIA+ più giovani, che meritano spazio e riconoscimento, sia nelle istituzioni pubbliche che in famiglia: solo nel 2021 –stando ad una ricerca del Trevor Project che ha preso in esame più di 35,000 giovani LGBTQIA+, tra i 13 e i 24 anni – più del 42% ha tentato il suicidio (e l’ampia metà è composta da adolescenti transgender o non binary).

Le persone transgender più giovani, in particolare bambini o adolescenti, hanno un rischio maggiore di autolesionismo o tentativi di suicidio, ma anche depressione o disturbi d’ansia – in particolare quelli che non sono riconosciuti a scuola o a casa” specifica il dr. Jason A. Klein, pediatra endocrinologo presso l’Hassenfeld Children’s Hospital di New York “Ma questo non è dovuto alla transessualità, e nemmeno all’utilizzo di alcool, droghe, o l’ansia. Ma al non essere accettatə.”

 

Leggi anche: Cos’è e cosa non è la teoria gender

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