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Diversity and inclusion, parola a un esperto “Solo un’azienda italiana su dieci è pronta”

Intervista a Roberto D’Incau, head hunter internazionale, consulente sulle risorse umane di grandi aziende ed esperto di D&I (Diversity and Inclusion).

6 min. di lettura
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Roberto D’Incau si occupa di risorse umane, scouting, coaching e diversity and inclusion. È un personaggio pieno di energia positiva e curiosità verso il mondo e i nuovi orizzonti del contemporaneo. Roberto è socio fondatore dell’agenzia Lang and Partners. E ha da poco pubblicato il libro “Lessico della Felicità“, scritto a quattro mani con Laura D’Onofrio. Prima di sottoporlo a un ping-pong lessicale di botta e risposta, ho fatto due chiacchiere con lui sul mercato del lavoro creativo, su come le aziende italiane stiano – o non stiano – adottando le dovute attenzioni rispetto al tema diversity and inclusion.  A tal proposito, ieri abbiamo pubblicato un’intervista del nostro Flavio Marcelli a Zebedee Management, prima e più autorevole agenzia di talents e models britannica specializzata su diversity e inclusività.

 

Roberto, approfitto della tua competenza, per farti una domanda cara a moltə della nostra comunità: come si sta muovendo il mercato del lavoro nell’ambito delle industrie creative?

All’inizio del 2021, a causa della pandemia, temevo ci sarebbe stata una catastrofe, e per i primi tre mesi è stato così. In verità, al netto dell’immane tragedia di questo COVID-19, ho osservato come il mercato del lavoro abbia attinto alla propria natura mobile, fluida. Sono nate nuove professioni, con grande attenzione al processo di digitalizzazione. Per esempio noi come agenzia abbiamo dovuto adattarci, come tutti, e abbiamo imparato a fare webinar. Anche nell’ambito del coaching, oggi ritengo sia molto più efficiente fare colloqui e dialoghi con le persone mediante una videochiamata. In questo modo la persona è a casa sua, si sente a suo agio, e possiamo chiacchierare in un mood molto più rilassato. E per me, che faccio scouting e coaching, quel momento è molto più prezioso di un colloquio tenuto qui, dal vivo, nel mio ufficio. Infinte lasciami dire: è anche più ecologico! Insomma, il mercato si è adattato alle nuove tecnologie con rapidità, forse perché è stata un’esigenza vitale.

A proposito di inclusione e diversity, qual è l’obiettivo che secondo te le aziende italiane stentano ancora a raggiungere?

Credo che possiamo parlare di percentuali, e questo ti darà un’idea del panorama italiano. Dunque, io ho individuato 4 comportamenti differenti da parte delle aziende italiane rispetto ai temi D&I (Diversity and Inclusion ndr).

INDIFFERENTI 40% – Ci sono le aziende indifferenti al tema, non fanno nulla, a questa aziende non frega niente del D&I, e sono il 40%.

PASSIVE 20% – Ci sono poi le aziende che “il D&I ce tocca, dai facciamo qualcosa“. Entro dieci anni queste aziende attiveranno qualcosa, ma senza crederci davvero, semplicemente perché ritengono che il tema del D&I sia un costo dovuto, e non un’opportunità. Sono aziende passive rispetto ai cambiamenti, ritengono questo genere di evoluzioni semplicemente un costo da sostenere e lo spalmano nell’arco degli anni. Queste aziende iniziano di solito con questioni legate alla leadership femminile, e – lasciami dire, senza fare nomi –  ci sono associazioni che su questi temi sono diventate meri centri di potere. Queste aziende sono il 20%.

COSMETICHE 30% – Ci sono le aziende che fanno qualche intervento, si occupano di bias, inclusione, ma in modo random, con interventi che io definisco cosmetici. Sono aziende che non investono molto, un po’ ci credono e un po’ no. Va detto che qualcosa fanno, magari perché c’è qualche manager più illuminato, ma si capisce che la testa dell’azienda non ci crede davvero, e quindi tendono ad adottare azioni più simboliche, magari di comunicazione verso l’esterno, che strutturali. Sono il 30%

CONVINTE 10% – Ci sono aziende molto strutturate sul tema D&I. Tra esse, va detto che ci sono molte filiali italiane di multinazionali. Non mettono in atto interventi soltanto per fare qualcosa, ragionano strutturalmente: adottano un D&I counseling e si fanno guidare, assorbendo questo tema come una cultura che davvero permea lo spirito aziendale. Rovesciano la modalità di intervento, non più top down, ma bottom up (le iniziative non vengono imposte dall’alto, ma sono realizzate partendo dai lavoratori stessi ndr). Alcune individuano ambassador rappresentativi delle varie realtà che ci sono all’interno dell’azienda, per esempio una mamma che lavora, una persona LGBTQ+, una persona diversamente abile. E realizzano un tavolo di dialogo intorno al quale si riesce a far emergere le esigenze specifiche.

 

Sei stato un visionario, su questo tema. La tua agenzia è partita presto sul D&I. Come è nata l’idea?

Posso raccontarti un episodio. Circa vent’anni fa lavoravo in una multinazionale. E avevo il mio bias, perché ecco, insomma al mio capo non avevo mai parlato della mia omosessualità. Non che mi nascondessi, però la questione non era mai stata chiarita, né c’era stata a dire il vero l’opportunità di farlo. Ecco, ci fu un Natale in cui il mio capo mi invitò a una festa che dava a casa sua, con sua moglie, la sua famiglia e altri amici e colleghi. Nel porgermi l’invito, mi disse “Vieni pure with your relevant other” e nel dirmelo mi guardò con gentilezza e accoglienza e anche un po’ di complicità, come per dire “Guarda che ho capito tutto”. Naturalmente non mi disse “Vieni con il tuo compagno”, ma utilizzò una locuzione inglese neutra e cordiale, intenzionalmente aperta a qualsiasi possibilità, visto che lui aveva ben capito che io fossi gay, ma io non gliel’avevo mai detto. Ecco, direi che in quel momento mi resi conto che quel capo, in tempi in cui il tema della D&I nelle aziende non era ancora di attualità, aveva però intuito quanto sia importante per una persona sentirsi accolta per ciò che è all’interno di un team, fosse anche semplicemente un team di lavoro.

 

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“Lessico della felicità, 33 parole per vivere meglio” è il tuo libro scritto a quattro mani con Laura D’Onofrio. È vero che la vita di oggi induce sempre più a vivere tutto come una malattia, o per meglio dire una nevrosi: qual è la chiave di volta per rovesciare questa pericolosa e diffusa attitudine?

Il libro non parla di felicità, e questo ci tengo a chiarirlo. È un insieme di 33 riflessioni su 33 consapevolezze diverse. Potremmo chiamarlo il bugiardino delle consapevolezze. Le 33 parole sono occasioni per il lettore di fare un check alle proprie auto-consapevolezze. Per rispondere alla tua domanda, io credo che per ciascuno di noi sia importante la propria consapevolezza. Per esempio, un tema che viene sempre banalizzato, perché ritenuto apparentemente frivolo, roba da vanitosi: la sexyness. Bisogna continuare a sentirsi seduttivi, anche se siamo in un’unione monogamica. La sexyness comunicativa è importante. Non è che se stai vent’anni in un’azienda, diventi un lavoratore con le ciabatte come un marito sul divano. È importante la sexyness, nella vita e nel lavoro, sempre, a venti o a ottant’anni!

 

Al netto di una certa tendenza contemporanea ad esasperare la richiesta di sexyness, creando vuoti di inadeguatezza spaventosi, posso dire di essere d’accordo con te, e scusa se mi permetto questo commento. Senti qua, per prepararmi a questa intervista ho pescato, a proposito della felicità, due massime di due giganti del pensiero. Sembrerebbero in contrasto, e forse lo sono. Per Epicuro la felicità sta tutta nell’amicizia, per Leopardi nell’ignoranza del vero. Allora, come la mettiamo?

Diciamolo: sono entrambe vere. Io vorrei però ribattere a questa tua, se mi permetti, pesantezza, con l’idea che mi sono fatto che la felicità sta nel mantenersi leggeri. A volte abbiamo paura di mantenerci leggeri. Soprattutto in Italia pensiamo che essere leggeri, significhi non essere seri. La leggerezza nasce dall’intelligenza. Lo possiamo chiamare “lato bimbo” (titolo di un altro libro di D’Incau ndr). Direi che non dobbiamo perdere lo sguardo incantato sulle cose. Io vedo molta pesantezza italica, è una cosa pericolosa. Guarda all’80enne italiano, se ne sta a fare il nonno. Consiglio, a tal proposito, di leggere un filosofo contemporaneo illuminante: Alain de Botton.

 

Ora ti sottopongo a questo gioco delle Tre Parole, mi è venuto in mente perché il lessico è al centro dell’idea di stesura del vostro libro. Per favore, dove riesci, rispondimi con tre parole.

Tre parole sorprendenti legate alla felicità.

Stupirsi, desiderare, amarsi.

Tre idee per guardare in faccia il 2022 con apertura mentale e di cuore.

Immaginazione, speranza, utopia.

Tre strumenti per dare un senso a questo incubo pandemia.

Forza, resilienza, organizzazione.

Tre input per valorizzare la propria diversità. Ok, qui non bastano tre parole, facciamo tre concetti, suvvia.

Essere sinceri con se stessi e con gli altri.
Condividere quello che si è nel profondo, senza avere paure di mostrare debolezze e forze.
Non avere paura di non essere uguali agli altri, ma invece orgogliosi della propria unicità.

Dimmi tre domande che posso fare a me stessə per capire se mi sono accettatə per ciò che sono.

Mi piaccio così come sono?
Quanto mi stimo da uno a cento?
Guardandomi allo specchio, penso di essere una persona amabile (da tutti i punti di vista)?

Tre parole per sconfiggere la paura dei cambiamenti.

Coraggio, provarci, sapere che si può sempre tornare indietro.

Tre personaggi pubblici da cui lasciarsi ispirare per vivere bene con sé stessə.

Amanda Lear, Liliana Segre, Javier Bardem.

Tre qualità che dovrebbe avere unə leader del movimento LGBTQ+.

Sensibilità, carisma, diplomazia.

 

 

 

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Illustrazione di copertina: Courtesy of Tim Mossholder on Unsplash 

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