Si è spenta all’età di 98 anni Lucy Salani, unica donna transgender italiana sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti.
Nata in Piemonte nel 1924 e cresciuta a Bologna, Lucy è stata deportata a Dachau nel 1944, dove è rimasta per sei mesi, fino alla liberazione nel 1945. Poco prima era stata costretta a combattere, durante la II° Guerra Mondiale. Mandata a Cormons, in artiglieria, ha disertato poco dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943. Vissuto in clandestinità si è prostituita a Bologna, con diversi ufficiali tedeschi come clienti, fino a quando la polizia non l’ha trovata. Spedita prima in carcere a Bologna e successivamente a Modena, è stata condannata a morte dai tedeschi. Salani chiede la grazia ad Albert Kesselring e la ottiene, con la condanna tramutata in lavori forzati in un campo di lavoro a Bernau, nella Germania meridionale. Riesce a scappare, arriva in treno fino al confine tra l’Austria e l’Italia, viene scoperta, catturata e spedita a Dachau, dove sopravvive sei mesi. Quando il campo viene liberato ha 20 anni. Venne ritrovata tra i cadaveri.
Inizia così una nuova vita, da tappezziera. Negli anni ’80 si trasferisce a Londra per sottoporsi ad un’operazione di riattribuzione del sesso, per poi tornare a Bologna. “Il mio nome è Salani Luciano, originale, però nella vita ho preso mille nomi, ma io mi chiamo Luciano. Quante volte me lo hanno chiesto di cambiare nome. Io ho detto no, me lo hanno dato i miei genitori. Perché una donna non può chiamarsi Luciano?”.
La sua incredibile storia di orgoglio e resilienza è diventata prima libro, “Il mio nome è Lucy: l’Italia del XX secolo nei ricordi di una transessuale”, a firma Gabriella Romano, edito da Donzelli, e successivamente acclamato documentario, “C’è un soffio di vita soltanto“, firmato dal duo di registi italiani Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, da noi intervistati.
“Amavo giocare con le bambine, i bambini mi davano fastidio“, confessa Lucy nel doc ricordando l’infanzia. “Mi sono sempre sentita femmina fin da piccola, mia madre era disperata. Volevo sempre fare ciò che a quell’età facevano le bambine: cucinare, pulire e giocare con le bambole. Mio padre e i miei fratelli non mi accettarono. Negli anni trenta i miei genitori si trasferirono nel bolognese e fu così che in città allacciai amicizie con diversi omosessuali. Che colpa ne ho io, se la natura mi ha fatto così? Me lo sono sempre chiesta e ho cercato di farlo capire”.
“In quel campo di concentramento“, ha ricordato Salani, “è iniziato il vero Inferno. Quello di Dante non era nulla a confronto”. “Sono già tornata tre volte a Dachau dopo la liberazione e tutte le volte provo una sensazione che non riesco a descrivere. Ho un blocco e mi continuano a scendere le lacrime… È impossibile dimenticare e perdonare. Ancora alcune notti mi sogno le cose più orrende che ho visto e mi sembra di essere ancora lì dentro e per questo voglio che la gente sappia cosa succedeva nei campi di concentramento perché non accada più”.
Lo scorso anno Geppi Cucciari, in diretta tv, si commosse nel raccontare la storia di Lucy, che si è sempre definita “bambino, figlio e figlia, soldato, disertore e prigioniero, madre, prostituta e amante. Ma qualsiasi persona sia stata, posso dire con convinzione di essere sempre stata me stessa”. La scorsa estate la vicesindaca di Bologna Emily Clancy e la Presidente della Commissione Pari Opportunità Porpora Marcasciano le consegnarono la Turrita di Bronzo (una delle onorificenze del Comune), in quanto “testimone di libertà e resistenza”.
“Il ricordo di Lucy vive nei nostri cuori e ci spinge a lottare con ancora più forza per affermare l’immenso valore dell’autenticità delle nostre vite“, il commento di Arcigay Rete Trans* Nazionale alla morte di Lucy, donna che, con le sue mille vite vissute, è diventata metafora di un’intera comunità fatta di persone che mai si arrendono, facendo tesoro del dono più prezioso della Storia: la memoria, come unico e insostituibile punto di partenza.
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