Quante volte vi è capitato, guardando una serie tv, di incontrare due personaggi dello stesso sesso che hanno tutte le potenzialità per diventare una coppia? Le premesse sembrano esserci tutte, e allora gli episodi scorrono uno dietro l’altro, in trepidante attesa che scoppi finalmente la scintilla. Poi arrivano i finali di stagione, la fine della serie, e non è successo niente. Conosciamo quel sentimento – un po’ di frustrazione e un po’ di delusione – che ci accompagna mentre riflettiamo su come abbiamo speso tutto quel tempo aspettando qualcosa che non è mai arrivato. Ecco, per chi volesse dare un nome tecnico a tutto ciò, il termine è queer baiting. Queer non ha bisogno di spiegazioni, “bait” significa “esca”. Il risultato è esattamente ciò che la parola suggerisce.
Con il fenomeno delle serie tv sempre più in crescita negli anni, tanto gli studiosi quanto i fan, hanno osservato delle tendenze all’interno delle storie raccontate. E una, alquanto spiacevole, riguarda la comunità LGBTQ+. Volendo andare ancora più a fondo nella definizione, diciamo che il queer baiting è quella strategia messa in atto da produttori – e annesse case di produzione – che consiste nel lanciare messaggi equivoci, strizzare l’occhio al pubblico queer, facendo intendere la possibilità di personaggi o relazioni vicini alla comunità, che però si risolvono in un nulla di fatto, solo per aumentare l’audience. È una tecnica collaudata che, abbiamo visto col tempo, ha sempre funzionato. Complice anche la mancanza, almeno fino a qualche decennio fa, di una consistente presenza queer all’interno dei vari show. Attenzione, questo fenomeno è ben diverso da queer coding e queerc atching, altre due tendenze che caratterizzano il mondo dei media, ma che sono un po’ meno maliziose e nocive di ciò di cui stiamo parlando. Chiunque e qualunque coppia nello spettro di generi e identità sessuali può cadere vittima del queer baiting anche se, numeri alla mano, nel corso della storia degli show televisivi ha riguardato per lo più personaggi lesbici. Anche qui, il fatto che molti altri generi e sessualità hanno tardato a fare la loro comparsa ufficiale nei media ha giocato la sua parte.
Il primo caso di queer baiting risale addirittura agli anni Novanta con la serie televisiva cult Xena – Principessa guerriera. I fan hanno sempre visto qualcosa di più tra Xena e Gabrielle, la sua “migliore amica” (come veniva definita ufficialmente), ma niente è mai successo. È anche vero che allora la rappresentazione nelle serie tv fosse più unica che rara. Spostandoci quindi più vicini ai giorni nostri, alcuni titoli ne sono diventati esempi lampanti. E purtroppo continuano ad aumentare. Da Myka Bering e H.G. Wells in Warehouse 13 a Emma Swan e Regina Mills in Once Upon a Time, passando per Eve Polastri e Villanelle di Killing Eve e Kara Denvers e Lena Luthor direttamente da Supergirl. Chi ha visto questi show sa bene di cosa stiamo parlando. Per chi non li conoscesse e per far capire l’enorme potenziale (sprecato) di queste coppie, basti dire che molte spettatrici hanno affermato di aver iniziato le suddette serie solo perché, da quello che avevano raccolto tra le reazioni di Internet, avevano capito che le protagoniste fossero lesbiche. A questi titoli se ne potrebbero aggiungere tanti altri, ma la lista diventerebbe troppo lunga per questo articolo. A questo punto, qualcuno potrebbe contestare che non necessariamente la chimica tra due personaggi – o tra chi li interpreta – deve significare qualcosa di romantico o amoroso. Niente di più vero. È anche vero, però, che certe situazioni nella cinematografia sono codificate da elementi ben precisi: una particolare costruzione della storia, un’inquadratura, un giro di camera, una musica o dei colori vengono immediatamente associati al romanticismo. Oltre al fatto che spesso produttori, sceneggiatori e registi ci mettono del loro al di fuori della finzione e nelle varie interviste per alimentare i dubbi. Non c’è quindi da stupirsi se la delusione suscita qualche protesta da parte dei fan. Sarebbe interessante, da un punto di vista puramente sociologico, se lo stesso fenomeno fosse rivolto ogni tanto alla controparte etero, una sorta di straight baiting giusto per far capire come ci si sente. A dire il vero, una serie che è riuscita a farlo c’è. Si tratta di Black Sails (se non l’avete vista, recuperatela!), che ha ingannato migliaia di uomini etero a guardare una storia di pirati, storicamente simbolo di forza etero e virilità, tutti rigorosamente queer. Ad oggi è ancora l’unico caso di straight baiting registrato.
Da parte dell’opinione pubblica, ultimamente la cosa è sfuggita di mano. Vediamo sempre più spesso celebrità, tra attori e cantanti, che vengono accusati di queer baiting, per ciò che scrivono nelle loro canzoni o per alcune dichiarazioni e atteggiamenti che lasciano scontenti i fan. Ariana Grande, Nick Jonas, Madonna, Billie Eilish, Rita Ora, sono tutti stati accusati di ingannare quella parte del loro fanbase LGBTQ+. Questo però non è queer baiting, non può esserlo quando si tratta di persone reali nella loro vita di tutti i giorni, carriera compresa. È fuorviante – senza dubbio – e di cattivo gusto, ma è bene ricordare e sottolineare come il queer baiting sia una strategia che si applica ai media, quando dietro c’è un’azione volontaria di qualcuno per coltivare interessi sulle spalle degli spettatori.
Al di là di qualsiasi giudizio di valore si possa dare sui singoli casi, il punto di fondo è uno e uno soltanto: il queer baiting fa male? La risposta è sì. Sappiamo come, soprattutto per gli spettatori più giovani, nell’età dell’adolescenza quando capire e accettare chi si è può essere davvero complicato, la rappresentazione nei media sia importante. È un punto di aggancio per sentirsi raccontati quando nessuno ci capisce. Quindi fa male alla comunità LGBTQ+, a tutti coloro che attendono con ansia di sentirsi rappresentati e di vedere comparire sullo schermo qualcuno come loro, a chi si sente invalidato dalla società, a chi non ha mai avuto la possibilità di guardare qualcosa e dire «Loro mi capiscono, loro sono come me». Ancora di più, è dannoso, negativo e pericoloso perché non è una casualità, come possono esserlo invece il queer coding o i sottotesti creati da alcuni autori. È fatto e operato volontariamente, è un piano di marketing che viene messo in atto in modo completamente intenzionale e una tattica per mantenere il pubblico queer interessato senza dover effettivamente avere alcun tipo di rappresentazione queer. Le storie LGBTQ+ ormai non sono più scandalose e stanno conquistando a fatica il proprio posto nella gerarchia dei personaggi, non c’è più bisogno di nasconderle, cammuffarle o lasciarle relegate sullo sfondo, in secondo piano. Sono semplicemente storie, esattamente come tutte le altre, che si rifanno a un’esperienza comune a quella di migliaia di persone. Quando anche produttori ed emittenti lo capiranno, sarà una vera e propria rivoluzione.
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