Stando alle ultime notizie che coinvolgono Ruanda e Regno Unito, sembra che la nuova frontiera degli attacchi politici alla comunità LGBTQ+ sia far passare il proprio Paese – in questo caso il Ruanda – come un territorio sicuro per le persone queer, attraverso attraverso atti di becera propaganda, che vedono coinvolti gli attivisti LGBTQ+ ruandesi. Salvo poi essere smascherati dagli stessi attivisti interpellati dal governo dello Stato in questione che, nonostante il pericolo di ritorsioni, hanno svelato al mondo un sinistro e inquietante piano politico.
Facciamo un passo indietro. Il Regno Unito ha da poco firmato un nuovo patto che riguarda i richiedenti di asilo politico: i rifugiati che arrivano attraverso il Canale della Manica verranno deportati in Ruanda e la richiesta verrà processata lì. Basterebbe questo a far storcere il naso a chiunque si preoccupi dei diritti umani basilari dei rifugiati, se non fosse che gli attivisti LGBTQ+ che operano in Ruanda hanno lanciato un segnale d’allarme.
È risaputo che il Ruanda non è esattamente al passo con i tempi per quanto riguarda i diritti LGBTQ+. L’omosessualità non è illegale ma allo stesso tempo è un argomento tabù, e la comunità non dispone di leggi che la proteggano. Anche per questo i rifugiati LGBTQ+ si rifiutano di mettersi in viaggio per il Paese.
Gruppi e associazioni per i diritti umani avevano già avvisato che il piano del Regno Unito avrebbe messo in pericolo i rifugiati queer, e la riprova è arrivata nelle scorse ore. Secondo fonti sul territorio, il governo ruandese starebbe chiedendo agli attivisti LGBTQ+ locali di aiutare a diffondere un messaggio propagandistico per placare gli animi dei rifugiati. Uno di questi attivisti, chiedendo di rimanere anonimo, ha racconto al The Mirror: «Il governo ruandese vuole costringere la comunità LGBTQ+ ruandese a farsi avanti e dire che stiamo bene e siamo al sicuro – sono consapevoli che gli immigrati LGBTQ+ si rifiutano di venire».
L’attivista in questione ha poi affermato di essere stato contattato di persona con la richiesta di scrivere una dichiarazione in cui parlava della situazione della comunità nel Paese. Situazione che, ovviamente, doveva apparire sicura, quasi idilliaca, senza alcun tipo di pressione politica o nella vita quotidiana.
La notizia, oltre a scatenare polemiche e risentimenti contro lo Stato dell’Africa orientale, ha chiamato in causa anche il governo del Regno Unito. Gruppi e associazioni di tutto il mondo, giustamente, si chiedono: possibile che le politiche umanitarie del Ruanda siano state sorvolate da Downing Street? È poco probabile che gli addetti ai lavori non conoscano la situazione nel Paese e che ignorino la situazione della comunità LGBTQ+.
Peter Tatchell, veterano dell’attivismo in Inghilterra e creatore del gruppo “OutRage!“, ha così commentato: «È oltraggioso e tipico dei tentativi del regime ruandese di mascherare la sua mancata protezione delle persone LGBTQ+. Il Paese non è sicuro [per loro]. Sono diffusi pregiudizi omofobi, discriminazioni e minacce di violenza. Il Ruanda teme chiaramente che l’accordo sull’asilo politico con il Regno Unito possa fallire».
Ancora una volta gli interessi politici ed economici si antepongono alla vita delle persone e ai diritti umani che andrebbero invece garantiti. I rifugiati britannici sarebbero ospitati nella capitale, Kigali, dove la Human Rights Watch ha documentato come le autorità del Ruanda abbiano arbitrariamente detenuto, molestato e picchiato persone transgender e gay in passato.
Il Ministero dell’Interno del Regno Unito, tuttavia, ha affermato come, secondo le ricerche e le valutazioni attuate dai suoi funzionari, le persone LGBTQ+ «non corrono un rischio reale di persecuzione», affermando che si tratti invece di un ambiente protettivo. La domanda sorge spontanea: quali sono stati esattamente i criteri esaminati per arrivare a questa conclusione? Tutto le notizie che arrivano dal monitoraggio di associazioni e organizzazioni dicono il contrario. Rimane da vedere quale sarà la prossima mossa del Regno Unito, già in un terremoto politico per le dimissioni di Boris Johnson.
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