Una tornata di elezioni che, se legittima, abbatterebbe ogni record: con quasi il 90% dei voti – il margine di vittoria più largo nella storia della Russia dal 1991, anno in cui si è conclusa l’era sovietica – Vladimir Putin mantiene salde le redini della Russia e dei territori occupati, grazie all’ennesima presidenziale farsa svoltasi nell’arco di ben tre giorni il 15, 16 e 17 marzo.
Un esito fortemente desiderato da Putin, il quale mirava a scongiurare qualsiasi speculazione riguardante un possibile dissenso interno e a rafforzare la propria immagine di leader incontestato sul palcoscenico internazionale, specialmente di fronte ai paesi occidentali che supportano l’Ucraina nella sua resistenza contro l’offensiva russa, in atto da più di due anni.
L’espansione del diritto di voto agli abitanti delle regioni ucraine occupate di Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia, e Crimea, formalmente annesse dalla Russia nel settembre 2022, segna un’ulteriore tappa nel processo di integrazione di questi territori all’interno delle strutture amministrative e politiche russe. In queste aree, il sostegno a Vladimir Putin oscilla tra l’88% e il 94%.
La situazione descritta, con percentuali di sostegno straordinariamente elevate al presidente Putin e al suo partito nelle regioni annesse, riflette un modello osservato in altre circostanze analoghe, come nel caso della Cecenia – piccolo territorio a maggioranza mussulmana sul confine con la Georgia.
Anche quest’anno, la Cecenia – territorio che ha vissuto un’annessione relativamente recente rispetto ad altre regioni russe e che ha attraversato decenni di conflitti e tensioni – ha mostrato livelli di supporto ufficialmente altissimi per Putin corroborati anche dalla grande vicinanza tra il presidente russo e quello ceceno, Ramzan Kadyrov.
In Cecenia l’affluenza al voto è stata altissima, del 96,5% e le preferenze per Vladimir Putin sono state del 98,99%.
Kadyrov – figura centrale nella Cecenia post-conflitto, fortemente sostenuto dal Cremlino – è leader della Cecenia dal 2004, salito al potere dopo l’assassinio di suo padre, Akhmad Kadyrov, leader separatista, che in seguito scelse di tradire la propria popolazione schierandosi con Mosca.
Putin appoggiò prima Kadyrov senior e poi junior, concedendo loro ampio controllo sulla Cecenia in cambio della lealtà e della promessa di mantenere la stabilità nella regione, turbolenta a causa di due guerre indipendentiste negli anni ’90 e all’inizio degli anni 2000.
Un accordo che ha permesso a Ramzan Kadyrov di governare la Cecenia il pugno di ferro, utilizzando metodi ampiamente criticati da organizzazioni internazionali per i diritti umani per violazioni quali torture, uccisioni extragiudiziali, repressione delle voci critiche e persecuzione delle identità LGBTQIA+.
Un clima di terrore che però a Putin fa fin troppo comodo, come parte di un piano più ampio per mantenere la stabilità in Cecenia e nel Nord Caucaso, regione strategica per la Russia sia dal punto di vista geopolitico che per le sue risorse naturali.
Ed è proprio in Cecenia che l’influenza autoritaria di Putin assume connotati ancora più disturbanti, specialmente quando si parla di persecuzioni verso la comunità LGBTQIA+ in un territorio – la Russia – totalmente privo di tutele verso le identità non conformi.
A partire dal 2017, sono centinaia le segnalazioni di campagne sistematiche tra arresti, detenzioni, torture e, in alcuni casi, omicidi di persone sospettate di essere omosessuali o bisessuali in Cecenia – in quello che è diventato negli anni un vero e proprio omocausto.
Azioni condotte con il tacito appoggio o direttamente dalle autorità cecene. Qui, le vittime vengono detenute in sedi non ufficiali e in condizioni disumane, sottoposte a violenze fisiche e psicologiche nel tentativo di costringerle a rivelare l’identità di altri membri della comunità LGBTQIA+ in un circolo vizioso che appare da anni inarrestabile.
Il governo ceceno, guidato da Kadyrov, ha più volte tentato di smentire l’esistenza di tali operazioni secretate, arrivando persino a negare l’esistenza di persone omosessuali in Cecenia. Tuttavia, numerose testimonianze, reportage giornalistici e indagini condotte da organizzazioni per i diritti umani internazionali, come Human Rights Watch e Amnesty International, raccontano una realtà ben diversa.
Da anni la comunità internazionale tenta di esercitare pressioni sul governo russo per indagare su tali accuse, ma le risposte ufficiali sono state spesso considerate insufficienti o evasive.
Nel 2018, in risposta alle continue segnalazioni di violenze contro gli omosessuali in Cecenia, la Russia respinse infatti le accuse di torture e uccisioni perpetrati dalle forze di sicurezza cecene contro la comunità LGBTQIA+ di fronte al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite.
Considerando l’approccio del Cremlino alla questione LGBTQIA+ negli ultimi anni, il perché è ben evidente.
La situazione in Cecenia si inserisce infatti in un contesto più ampio di restrizioni ai diritti LGBTQ+ in Russia. Dal 2012, con l’introduzione della legge contro la “propaganda gay” diretta ai minori, si è assistito a un incremento della stigmatizzazione e della discriminazione contro le persone LGBTQ+ nel paese, in concomitanza con l’erosione di qualsiasi tutela alla libertà di espressione delle identità non conformi.
Risulta quindi evidente una diretta correlazione tra l’immenso sostegno politico manifestato dalla Cecenia, presumibilmente orchestrato dal suo governo, e la condivisione di politiche repressive nei confronti della popolazione con la Russia.
Il messaggio che emerge è inequivocabile: la lealtà politica e l’allineamento ideologico vengono prioritizzati al di sopra dei diritti e delle libertà individuali a scapito del processo democratico, consolidando un regime di controllo e coercizione che riflette una visione comune di governance autoritaria.
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