Parlando di rappresentazione, noi persone queer siamo sempre più visibili.
Non abbastanza, non quanto meriteremmo, ma tra piccolo e grande schermo, la nostra comunità sta trovando spazio.
Negli anni Novanta non ci contavamo sulle dita di una mano, fatta eccezione per quei ruoli marginali (l’amico gay della protagonista etero, in primis), le macchiette che ci fanno sorridere e incazzare in equa misura.
Oggi più che mai, i ruoli si moltiplicano, i personaggi non sono più ai bordi della storia, ma iniziano gradualmente a dominare i racconti, cercando di cogliere le mille sfumature del mondo queer.
Siamo finalmente possibili, tra i candidati agli Oscar o nella prossima serie su Netflix.
Ma chi racconta le nostre storie?
Tre volte su quattro, a prendere in mano i nostri ruoli rimangono attori eterosessuali e cisgender.
È così da secoli, dal 1994 quando Tom Hanks vinse un Oscar come migliore attore per il film Philadelphia, nel ruolo di Andrew Backett, omosessuale e malato di AIDS. Un dettaglio che ancora cade in secondo piano, partendo dal presupposto che recitare è finzione e l’attore replica la realtà pur senza farne esclusivamente parte. Spesso nemmeno le persone queer lo vedono come un problema, tanto è l’entusiasmo di riconoscerci sullo schermo da non prestare troppa attenzione a chi c’è dietro la macchina da presa: ci affidiamo al potere della recita, alla magia di un’impeccabile prova attoriale che riesce a dar corpo e voce al nostro vissuto.
Ma la ragione del dibattito è prima di tutto politica che artistica.
Dal 2005 con Brokeback Mountain, su 35 attori nominati agli Oscar per ruoli LGBTQIA+, nessuno di questi era apertamente parte della nostra comunità (fatta eccezione per Ian McKellen per Gods and Monsters nel 1998). Qui scatta la domanda: dove sono gli attori e le attrici queer? Possiamo davvero parlare di “inclusività” se poi quel gruppo marginalizzato non ha mai abbastanza spazio nell’industria? Se al centro della scena rimane sempre e comunque una persona etero e cisgender? Soprattutto: l’esperienza queer può essere ridotta ad una performance?
L’ultimo a dire la sua è stato Troye Sivan, cantautore e attore gay: “Vorrei dire alle persone che fanno i casting: ‘Hai davvero guardato quel provino? Perché stai scegliendo quella persona?’” ha dichiarato l’artista, in questi giorni protagonista del lungometraggio Three Months, sottolineando che un casting “autentico” può cambiare la vita degli spettatori queer.
Prima di lui c’è stato Russell T. Davis, regista e sceneggiatore del celebre Queer as Folk e del recente It’s A Sin, dove ogni personaggio queer era a sua volta queer anche dietro la macchina da presa: “Non significa essere “woke”, ma sono fermamente convinto che se prendo qualcun* per un ruolo voglio interpreti un amante, un nemico, qualcuno sotto droghe, un santo o un criminale..ma non sono lì per “fingersi gay” perché “fingersi gay” è solo un mucchio di regole per una messa in scena. È una questione di autenticità nel 2020. Non prenderesti una persona abile e la metteresti sulla sedia a rotelle, non coloriresti qualcuno di nero. L’autenticità ci può accompagnare i luoghi meravigliosi.”
Negli ultimi anni più attori e attrici cis-het hanno cominciato a pentirsi di aver interpretato personaggi queer o abbandonare direttamente il ruolo. Nel 2018 Scarlett Johansson ha abbandonato il progetto Rub & Tug dove avrebbe dovuto interpretare Dante “Tex” Gill, uomo trans e criminale negli anni ’70: “Penso che in quanto attrice dovrei essere libera di interpretare ogni persona, ogni albero, ogni animale, perché questo è quello che richiede il mio lavoro” ha commentato Johansson. Ma nonostante le migliori intenzioni, il discorso di Johansson non tiene conto di un problema interno all’industria cinematografica e televisiva che va oltre “il mestiere dell’attore”.
Nel 2021 l’attore Eddie Redmayne ha espresso di sentirsi pentito per il suo ruolo in The Danish Girl, dove interpretava Lili Elbe, donna transgender negli anni venti: “No, oggi non accetterei di interpretare questo film. L’ho fatto con le migliori intenzioni ma credo sia stato un errore. Ci deve essere una sorta di livellamento, altrimenti andremo sempre avanti con discussioni del genere” ha commentato l’attore “Capisco perfettamente le critiche, perché dobbiamo attuare un cambiamento e dobbiamo assicurarci che gli uomini e le donne trans mettano davvero piede e trovino lavoro”.
Per la rappresentazione transgender, la situazione è ancora più delicata perché si rischia di ridurre l’essere trans ad un “travestimento” il più convincente possibile per apparire valido. “Quando questo succede lo spettatore sta ricevendo due messaggi sbagliati.” ha spiegato Megan Townsend, analista presso l’organizzazione GLAAD Media “Che essere trans è una performance, un costume, ma anche che sotto tutto questa “messa in scena” una donna trans è solo “un uomo travestito” che sta fingendo.”
Al contempo, per molti fuori e dentro l’industria, l’effetto collaterale è che alle persone queer verranno assegnati solo ruoli queer, amplificando una ghettizzazione anche in un contesto dove dovrebbe vigere un’immersione libera da etichette o definizioni.
L’attrice bisessuale (candidata agli Oscar 2022, per il suo ruolo in Spencer) Kristen Stewart ha definito il dibattito “un argomento scivoloso“: “Non vorrei mai raccontare una storia che dovrebbe essere lasciata a chi ha vissuto davvero quell’esperienza” dichiara l’attrice a Variety: “Detto questo, è un argomento scivoloso perché significa che non potrei mai più interpretare un personaggio etero in accordo a questa regola. Penso sia una zona grigia”.
E proprio qui cade l’asino: molti attori dichiaratamente queer, soprattutto dagli anni Novanta in poi, dopo il coming out sono rimasti confinati nello stesso identico ruolo (spesso stereotipato e uguale a sé stesso) senza la possibilità di ampliare le proprie possibilità. “Non sarebbe giusto e non andrebbe affatto bene.” ha commentato Rupert Everett, attore che dopo il suo coming out negli anni Ottanta è rimasto “ingabbiato” in ruoli principalmente omosessuali: “Recitare è recitare, ed è fantastico anche per le persone gay interpretare persone etero.“
Eppure, gli attori etero hanno una visibilità e molti più posti di lavoro di quelli queer, anche e soprattutto raccontando le nostre storie.
Ma il focus non è presentare una targhetta per immergersi in un ruolo, quanto correggere lo squilibrio all’interno dell’industria, in modo che non ci sia un divario di opportunità e tuttə possono davvero interpretare tuttə. È anche necessario che le nostre identità non vengano soppresse ma nemmeno rese la colonna portante della nostra rappresentazione, in quanto composti da mille sfumature e possibilità diverse, come ogni essere umano. In questo parità e maggiore voce in capitolo sono fondamentali.
“La battaglia non è quella di far sì che i personaggi gay siano interpretati solo da attori gay, ma essere sicuri del fatto che tutti i ruoli siano disponibili per tutti gli attori.” ha commentato nel 2021 Jim Parsons, attore dichiaratamente gay: “È importante che i personaggi gay siano rappresentati come individui a tutto tondo, completamente umani. È pieno di attori etero che hanno interpretato brillantemente personaggi omosessuali. Penso a Brokeback Mountain, che è uno dei film a tematica gay più toccanti che ci sia, una delle più belle storie d’amore che abbia mai visto, e quei due attori etero sono stati la scelta migliore per quei ruoli.”
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Condivido perfettamente cosi come dev'essere vero anche l'opposto, insomma sono attori, vanno tutti valorizzati per le loro doti recitative dev'essere il regista a valutare senza discriminazioni chi è piu adatto ad interpretare un determinato ruolo.
I ruoli gay possono essere interpretati da chiunque. Giustamente. E si è visto: Leonard di Caprio, Luca Marinelli. Non voglio essere ghettizzato.