“Quando si parla di amore ci protendiamo sul condividere, che è solidarietà e affettuoso incontrarsi: è lontano dal dividere, che può comportare numerazioni, gerarchie, l’insorgere conflittuale, il calcolare, il più e il meno, chi merita tot e chi questo o quello.
Chi condivide è spinto dalla necessità di incontrarsi, dallo spaccare la solitudine per aprire le braccia non ai volti di eroi prestabiliti con la morte nei fucili, ma agli anonimi che bruciano lacrime e sangue per seguire le loro idee e inclinazioni, e che conoscono infine i baci al profumo di tiglio”.
A due mesi dalla marcia su Roma, che nel 1922 segnò l’inizio di uno dei periodi più bui della nostra storia, nasceva Gianna Ciao, figura destinata a lasciare un’impronta indelebile nella Resistenza italiana.
L’opera di Gianna dopo la guerra, la sua vita a Saint-Paul-de-Vence tra artisti di calibro internazionale, e le sue riflessioni sulla dualità della lotta e dell’amore, temi universali che trovano risonanza nelle sue esperienze personali come donna lesbica, è uno specchio in cui possiamo riconoscerci anche oggi.
In principio fervente antifascista, cacciata dal liceo per le proprie idee sovversive, e poi gappista, l’orientamento sessuale di Gianna Ciao è una dimensione che raramente emerge nelle narrazioni mainstream, dove le storie di lesbiche come lei spesso sfumano ai margini (qui un nostro racconto delle donne della Resistenza Partigiana).
Oggi, nella Giornata Mondiale della Visibilità Lesbica – che si celebra tutti gli anni il 26 aprile – ricordiamo un’eredità frequentemente omessa o sottostimata, che ancora una volta svela una persistente reticenza a riconoscere pienamente il ruolo delle donne – lesbiche o non – nella storia, con il duplice obiettivo di delegittimare un movimento le cui origini si estendono ben oltre i moti di Stonewall, nonché il contributo femminile nella storia.
La storia delle lesbiche durante il nazifascismo è una narrazione che emerge solo a tratti nella storiografia moderna, frequentemente messa in ombra da un velo di silenzio e negligenza. Le commemorazioni ad hoc sono scarse e ottengono poca visibilità, e nonostante gli sforzi dei collettivi a livello internazionale, non esistono monumenti per ricordare le donne lesbiche vittime dei totalitarismi.
All’epoca delle deportazioni nei campi di concentramento, il regime adottava il “triangolo nero“ per marcarle e classificarle tra le persone considerate “asociali”. Un simbolo che non solo sanciva il loro isolamento e la loro persecuzione, ma cancellava anche la legittimità della loro identità in un unico, drammatico gesto.
Ines Rieder, storica austriaca, ha documentato oltre 60 episodi di donne arrestate dalla Gestapo a causa della loro omosessualità. Ma probabilmente si tratta solo della punta dell’iceberg di tutti i reperti storici che aspettano di essere svelati.
La conoscenza e la commemorazione della storia sono fondamentali per preservare i principi di democrazia e libertà, valori per cui anche le partigiane lesbiche hanno combattuto con ardore. Tuttavia, ci si chiede quanto di quell’impegno, assunto meno di un secolo fa con il giuramento di opporsi a qualsiasi regime oppressivo che limiti le libertà individuali di determinati gruppi sociali, sia ancora vivo oggi.
Il 25 aprile di quest’anno ha assunto un tono ineditamente divisivo. Per la prima volta in decenni, la celebrazione della Liberazione è stata segnata dalla minaccia di un ritorno alla soppressione delle libertà di stampa e informazione. Tuttavia, i segni premonitori di un’inclinazione autoritaria da parte di questo governo erano evidenti già da tempo, ben prima che la sua deriva diventasse palese. In molt* hanno semplicemente rifiutato di coglierli.
Quando innumerevoli famiglie in tutta Italia si sono trovate oggetto di una persecuzione spietata già nei primi mesi dall’insediamento di questo governo e la nostra costituzione antifascista è stata più volte vilipesa dalle dichiarazioni dei suoi esponenti, al di fuori della comunità LGBTQIA+ e degli attivisti, non si è battuto ciglio.
Le storie di famiglie omogenitoriali smantellate dalla ferocia di questo governo le abbiamo raccontate ben prima che una circolare ministeriale emanata in occasione della Giornata della Memoria rifiutasse di citare l’omocausto.
Tra quelle storie, tantissime sono di donne lesbiche ritrovatesi, nuovamente, a combattere per non essere cancellate – letteralmente – dai registri dell’anagrafe, sui certificati di nascita dell* propr* figli*. Donne che lottano per l’amore, per la libertà e per una patria che possa finalmente accoglierle come figlie legittime al di là del ruolo di mogli e subordinate.
Donne che, come molte partigiane lesbiche, possono giurare solo sulla propria parola e sperare di essere credute da un patriarcato che non riesce a collocarle in nessuno dei propri rigidi paradigmi.
Scenderanno nuovamente in piazza, unite e determinate, questo sabato 27 aprile a Roma, sostenute da una rete di organizzazioni non governative e gruppi di attivisti per manifestare contro le politiche discriminatorie del governo Meloni, e per promuovere i diritti e la visibilità delle madri lesbiche e delle persone trans* – fondamentali nella lotta transfemminista.
La lotta di Gianna Ciao diventa oggi tristemente moderna, in modalità e spiriti diversi, ma con un comune denominatore: la volontà non solo di resistere, ma di esistere, di essere visibili. Di scampare, ancora una volta, alla cancellazione che ci insegue.
E di farlo non con l’odio che divide, ma sempre con l’amore che unisce.
In copertina il ritratto di Gianna Ciao è tratto da una foto di GayNews
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