Su questa testata dichiaratamente LGBTQIA+ mi ritrovo spesso a scrivere con lo schwa. Va fatto perché se avete seguito l’argomento – o letto uno degli ottocentocinquanta articoli in circolazione – lo schwa ha molto a che vedere anche con la nostra comunità. Da persona queer che scrive anche su Gay.it, io scrivo dello schwa ma non l’ho studiato: riporto le notizie a riguardo, intervisto chi ne parla meglio di me, e ho imparato a familiarizzarci. Se scrivi spesso d’inclusività, prima o poi ci devi fare i conti.
Mi sono abituato senza più chiedermi se me lo leggerei un libro con lo schwa. Perché nell’immaginario che ho maturato negli anni, la prosa è più elegante se lo schwa non c’è. Ma lo spectrum di chi non vuole vi fornirà altre spiegazioni: perché non esiste nel nostro alfabeto, perché non è pronunciabile o leggibile da chiunque, perché frutto di quell’ideologia che ci sta inglobando tuttə tra politicamente corretto, gender, e rompic*glioni che non ci fanno più utilizzare il maschile universale.
Non basterebbe ribellarsi al sessismo della lingua italiana convertendoci al femminile? Se escludiamo chi lo fa solo con accezione negativa (‘la passiva’, ‘la pazza’, ‘la stronza’, ‘la tr*ia’ e tutte quelle parole che ci piace attribuire solo alle femmine), esiste un certo potere nel chiamare chiunque con i pronomi femminili.
Ma come spiegava anche Vera Gheno in una nostra intervista, la questione è un’altra: non si tratta solo di maschile o femminile, ma trovare spazio per un genere indistinto, che non è né un terzo genere e nemmeno neutro, ma proprio un genere assente. Nel pratico va a parlare a tutte quelle persone che si identificano in un genere indefinito o misto (inclusə chi scrive).
Nel frattempo, lo scorso Marzo l’Accademia della Crusca diceva che non c’è niente da educare: lo schwa è “frutto di una radicalizzazione legata a mode culturali” che andrebbe a danneggiare sia i maschi che le femmine. Argomentazioni che riducono le identità non binarie ad un capriccio delle nuove generazioni non abbastanza sufficiente per ‘storpiare’ l’italiano.
Eppure c’è chi ha già cominciato: come Gabriele Leodetti, studente del liceo scientifico Plinio Seniore di Roma, che ha messo lo schwa nel suo tema di maturità, ponendo una riflessione su cambiamenti nel tempo, il sistema scolastico, e la responsabilità di “non arrendersi mai alla conservazione e di fare spazio a qualsiasi occasione possa fornire gli strumenti per una convivenza civile più giusta, rispettosa e inclusiva nella nostra società“.
E menomale che non l’avrebbe utilizzato nessuno, se la ride Michela Murgia.
Nel frattempo partecipa anche l’audiovisivo: dal videogioco Wild Hearts che ha messo lo schwa per la prima volta nella storia del doppiaggio italiano a Rai1 che l’ha inserita nei sottotitoli dei Diversity Awards 2023.
Nello scritto lo schwa appare cacofonico e scomodo, ma nel parlato ricorda i dialetti del centro-sud Italia che non pronunciano quasi mai le vocali, e il binario di genere rimane sospeso. Sì, forse è poco elegante, ma proprio questo è il punto: lo schwa non deve piacerci, ma svegliarci.
Non siamo obbligatə ad utilizzarlo e la pratica non è immediata, ma abolirlo in nome della tradizione ci copre di polvere: perché come vi diranno tutte le persone citate più sopra, la lingua è troppo dinamica per fossilizzarsi da una forma all’altra, e sarebbe altrettanto ingenuo crederlo. Pur non trovando una soluzione fatta e finita, lo schwa pone l’attenzione a chi non si riconosce nemmeno nella propria lingua, osando metterla in discussione e interrogarla. Esce dal diametro della lente cisgender e tiene acceso il dibattito.
Poco importa se non vogliamo vederlo nei libri: è già tra noi e non smettiamo più di pensarci.
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