Una delle prerogative della body art, o performance art, – una delle avanguardie storiche della storia dell’arte nata nella seconda metà del Novecento – è sempre stata quella di coinvolgere direttamente gli spettatori, suscitando in loro emozioni anche estreme e costringerli a riflettere attivamente su ciò che la performance include. E se è vero, come è vero, che molto spesso l’arte è un riflesso dell’umanità, allora quella di Cassils è esemplare di come tutti quei limiti all’identità e all’espressione del proprio genere che la società impone in realtà non esistano.
Di origine canadese, l’artista, che si identifica come uomo trans*, ha scoperto l’arte contemporanea solo in età adulta. Provenendo da un’educazione ortodossa, l’idea che aveva dell’arte era una molto classica, per cui essere un artista significava essere un pittore. Le cose sono cambiate quando è entrato alla NSCAD (Nova Scotia College of Art and Design). Lì, l’influenza degli artisti più concettuali e underground degli anni Settanta l’ha colpito come un fulmine a ciel sereno, dando il via a quella che sarebbe stata la carriera di uno degli artisti performativi più controversi delle nuove generazioni.
L’arte di Cassils si basa sullo scardinare tutti gli stereotipi che circondano la comunità LGBTQ+, e in particolare quella transgender.
«Perché per identificarmi come maschio, devo per forza rimuovere chirurgicamente il mio seno? Perché devo accettare un approccio binaristico che si basa sul patriarcato e l’oppressione? Perché il mio corpo è il problema?»
“Cuts: A Traditional Sculpture” è probabilmente la performance più indicativa della sua idea sulla questione. L’obiettivo era sfidare la convinzione per cui le persone trans* non possono essere considerate a pieno tali a meno che non si siano sottoposte a interventi chirurgici di riassegnazione del sesso. Come sappiamo, ci sono tanti modi per esprimere la propria transessualità, e non tutti includono cambiare chirurgicamente il proprio aspetto fisico.
Così, per sei mesi Cassils si è allenatə in palestra, per cinque giorni a settimana, fino ad ottenere una corporatura molto simile a quella di una statua greca. 23 settimane di allenamenti raccontate in altrettante fotografie che testimoniavano il suo cambiamento fisico. Alla fine, una in cui mostra tutta la sua muscolatura e sfoggia un rossetto rosso fuoco.
L’ultima sua performance risale allo scorso anno: una toccante ed emotiva coreografia realizzata in protesta alle numerose leggi anti-trans che stanno spuntando in ogni parte degli Stati Uniti. Un vero e proprio assalto che però, Cassils sostiene, non è ancora preso con la giusta serietà. Non quando molti si vantano della crescente rappresentazione trans* nei media: «Cosa significa creare una rappresentazione in questo momento in cui abbiamo una società che sta attivamente cercando di distruggerci e cancellarci?»
La sua arte sa però essere anche molto politica e – giustamente – polemica. Il suo pezzo più controverso e dibattuto, intitolato “Pissed”, risale al 2017. Quando l’amministrazione Trump rovesciò la legge che consentiva alle persone trans* di utilizzare i bagni del proprio genere, Cassils collezionò per 200 giorni la propria urina. Il risultato, un centinaio di bottiglie, fu esposto in una mostra: mostrava esplicitamente il disagio e l’ingombro fisici di una persona quando il diritto di accedere a un bagno veniva limitato.
Cassils usa tutti gli elementi a sua disposizione: il fuoco, l’argilla, i pesi, il proprio corpo e i suoi gesti sono i mezzi con cui parla dell’esperienza di essere transgender e risponde agli attacchi di una società che, nonostante i passi avanti, ancora non è in grado di comprendere del tutto. Ma per capire, bisogna prima essere consapevoli di cosa si ha davanti. Per questo le sue performance, così estreme, insegnano prima di tutto a guardare. Vedere davvero la persona che si ha davanti, vedere il corpo transgender per ciò che veramente è, e non uno stereotipo ideologizzato dietro cui molte opinioni si nascondono.
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