Ho provato a contare quante volte viene utilizzata la parola fuck nella seconda stagione Euphoria, e a nemmeno cinque minuti del primo episodio ci aggiriamo intorno quaranta o quarantacinque.
Se la considerate un’esagerazione, sappiate che la serie ne è perfettamente consapevole.
La seconda stagione – scritta e diretta da Sam Levinson, uscita ieri notte oltreoceano e disponibile stasera su Sky Italia e in streaming su Now – non vuole offrirci un ritratto veritiero e accurato dell’adolescenza (sono pur sempre sedicenni attraverso gli occhi di un trentenne) quanto una sua distorsione, un viaggio agli estremi della lucidità umana, che come i suoi protagonisti – nella buona e cattiva sorte – non può fare a meno di esagerare.
Se avete odiato la prima stagione, questo secondo round non cercherà di adularvi: è ancora quello show iperstilizzato, dal montaggio iperattivo e schizoide, con zero remore a mostrare sesso esplicito o violenza grafica (la stessa Zendaya ha scritto su Instagram di guardare lo show “solo se ci sentiamo a nostro agio”.)
Ma se queste sono esattamente le ragioni del vostro hype, troverete pan per focaccia: questo ritorno è un’orgia di piselli imbrattati di sangue (Sam Levinson è uno dei pochi registi a far spogliare i maschi e femmine in equa misura) attizzatoi dritti in fronte, volti fratturati.
Estremizzato e ai limiti del grottesco, fiero di sbatterci tutto in faccia.
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Sono passati tre anni dal finale della prima stagione, a tal punto che ho dovuto cercarmi un riassunto per spolverare la memoria e capire dove eravamo rimasti.
Anche in questo caso alla serie non interessa e piuttosto che riprendere dove ci aveva lasciati, l’episodio apre le danze con una festa di Capodanno.
Tre quarti della puntata sembrano essere un preludio, una re-introduzione dei protagonisti all’alba di un nuovo inizio.
Rue sta ancora facendo i conti con la sua dipendenza, finisce nel posto sbagliato al momento peggiore, romanticizza il pericolo, ricade nello stesso tranello sviando la morte per un pelo.
Il suo mondo si ferma sempre in tempo per incrociare lo sguardo di Jules.
Difatti, Hunter Scafer è ancora un magnete per gli occhi: capace di bucare lo schermo e spezzarci il cuore con un sorriso attraverso le luci stroboscopiche.
Gran peccato che la sua dolce Jules, per buona metà dell’episodio, resta ai margini.
La speranza è che nei prossimi sette episodi il suo personaggio esca fuori in tutta la meravigliosa complessità dello speciale natalizio “Fuck Anyone Who’s Not a Sea Blob” (non a caso, scritto dalla stessa Hunter).
Il loro rapporto è ancora il cuore dello show, con tutti gli elementi per un’epica storia d’amore in grado di entrare negli annali della televisione, ma in questo primo episodio sono ancora entrambe dove l’avevamo lasciate. Nulla in più nulla in meno, in un loop suggestivo ma che rischia di addormentarsi sugli stessi schemi fin troppo riconoscibili.
Nate è ancora il villain della nostra generazione: ritratto della mascolinità tossica, di una sessualità repressa sotto chili di muscoli e liberata nella violenza più inaudita, bugiardo patologico e predatore seriale. Jacob Elordi è un terrificante Tom Cruise di 1.90 in grado di farci accapponare la pelle ogni volta che compare.
Se anche Maddy (Alexa Demie) e Kat (Barbie Ferreira) rimangono in secondo piano, a prendere nuova vita sono Fezco (Angus Cloud) e Lexi (Maude Apatow): da una parte l’anti-erore dell’episodio, di cui scopriremo l’infanzia ai limiti, ripercorrendone gli assurdi e rocamboleschi eventi.
Dall’altra il “pesce fuor d’acqua” dello show, amante della lettura e pacata, troppo “noiosa” per spiccare nella mischia. L’inaspettato (e tenero) incontro tra i due personaggi agli antipodi ne amplia le prospettive, facendoli uscire dall’ombra e sentendosi finalmente visti, ai propri occhi e quelli dello spettatore.
Ma chi ruba la scena a tuttǝ, dall’inizio alla fine, è Cassie: una bomba ad orologeria pronta a scoppiare da un momento all’altro, corpo usato e abusato da chiunque che arranca per non essere più oggetto.
È ancora la prima autosabotatrice di sé stessa ma starle dietro è uno strazio irresistibile.
Merito anche di una Sydney Sweeney brava da morire (attiverei già il campanello d’allarme per i prossimi Emmy) che ne coglie ogni frustrazione. Sperando che il suo personaggio decolli sempre di più, nel frattempo non possiamo fare a meno di precipitare insieme a lei.
A suo rischio e pericolo, Euphoria ci tiene ancora incollatǝ: la regia di Levinson continua a prendersi ogni libertà possibile, sperimentando con l’assetto visivo e costringendoci, che ci piaccia o meno, a tenere gli occhi puntati sullo schermo.
È una serie dove l’estetica ha un ruolo centrale, con un tratto distintivo riconoscibile al volo, in grado di catapultare personaggi e spettatori, in una spirale svincolata da ogni realtà tangibile.
Tanto da soffocarne a volte le corde emotive.
Ma siamo solo al primo episodio, e gli ingredienti per far esplodere lo schermo sono stati inseriti.
Non sarà una festa per tuttǝ, ma chi ha il coraggio di partecipare è benvenutǝ.
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