Intervista a Vera Gheno: “La lingua offre potere a chi è ai margini, lo Schwa è un simbolo per visibilizzare”

"Non lo userei mai in un documento ufficiale". Allo Sherocco Festival abbiamo intervistato la linguista.

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“Ho una laurea, un dottorato, 12 anni di assegno di ricerca, 20 anni all’Accademia della Crusca (e me ne sono andata io). Diciamo che ho qualche titolo per parlare della questione”. La questione per Vera Gheno è la lingua che costruisce il mondo. Inevitabilmente il suo nome è associato allo Schwa (ə), questo fonema che agita alcuni intellettuali e le destre, che non convince a sinistra e che spesso viene agitato da attiviste e attivisti come se fosse un fondamentale imprescindibile, una battaglia esclusiva e pazienza per altre. A parlare con Gheno invece si capisce che questa polarizzazione è il manifesto di questo tempo sciupato in cui l’indignazione viene prima del dubbio, l’accusa prima della consapevolezza di sé e della capacità di capire. La discussione con dubbio di sé è moneta fuori corso. Non per questo colloquio che ha avuto come cornice il Festival Sherocco, presso La luna nel pozzo di Ostuni.

Vera Gheno lei non ha inventato lo Schwa (ə), possiamo dire che lo ha importato nel dibattito. Ma per colpa sua non si parla di altro. E penso di non aver compreso bene cosa si vuole fare con questo fonema. Che cos’è un tentativo di riforma del linguaggio o una provocazione?

Né l’uno né l’altro, ed io non ho importato niente. C’è un antefatto: più o meno da quindici anni all’interno comunità più esposte alle questioni sull’identità di genere si sono cercate delle soluzioni per superare il diformismo e il binarismo della nostra lingua. Quindi accanto all’asterisco, alla barra, all’apostrofo c’era già chi usava lo Schwa (ə) ma era una dimensione molto gergale, intercomunitaria e il grande pubblico non si è mai occupato della questione linguistica. Poi nel 2020 la cosa è tracimata dalle comunità lgbt e transfemministe. Fra le altre cose io avevo accennato allo Schwa (ə) in “Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole” (Effequ, 2020), tiravo in ballo che in effetti la nostra lingua ha il maschile  femminile che non risolve i problemi delle questioni non binarie.

asterisco lingua
Gli articoli dedicati da Gay.it allo Schwa (ə) >

Ma perché lei è arrivata a occuparsi di questioni non binarie? Mi spiego, in genere ci si occupa e preoccupa di qualcosa che ci riguarda, che parla di noi. Vale molto nel suo ambiente e soprattutto per certi temi.

Io sono donna bianca, etero cisgender e di mezza età. Quindi non mi riguarda. Un giorno, durante una conferenza, parlavo della necessità di usare il femminile nelle professioni e dell’invisibilità linguistica delle donne, così a margine sono stata approcciata da una persona non binaria che mi ha detto, in sintesi: bello il discorso che fai del femminile non risolve i miei problemi. Nello scritto uso l’asterisco ma nel parlato ho dei problemi. D’istinto gli ho suggerito l’uso dello Schwa (ə).

Perché?

Per una linguista è qualcosa di molto comune nella dialettologia, con le lingue straniere e poi da un punto di vista semantico lo Schwa (ə) sta al centro di questo supposto quadrilatero delle vocali. Per fare le altre vocali non devi deformare la bocca e lo Schwa (ə) è invece questa vocale indistinta centrale che fai con la bocca al riposo. Anche da un punto di vista semantico mi sembrava adatto per indicare un genere indistinto. Quindi non un terzo genere ma è l’assenza di genere. Spesso sento parlare di neutro ma non è un neutro. Esprime l’indefinitezza di genere e perciò può indicare una comunità mista oppure una persona che non si identifica in un genere

Capisco ma non pensa che sia più urgente declinare le parole al femminile? Mi spiego. Ad oggi sappiamo che il maschile non marcato è il problema. È il motivo per cui parliamo di sessismo della lingua italiana. Forse bisogna ripartire da qui

Non sono convinta. Ma sono obiezioni che vengono mosse da una certa branca del femminismo che per delicatezza chiameremo più biologico. Ma non vedo le due istanze come incompatibili, nel senso che se una persona si abitua a usare il femminile quando serve, lo Schwa (ə) non toglie spazio al femminile. Ci sono situazioni in cui usiamo il maschile sovra esteso senza una forma indistinta. Ad esempio, quando diciamo “qualcuno ha perso l’ombrello”. Io quella obiezione la trovo passatista. Perché fare una priorità di diritti è la cosa che serve di più al patriarcato, parcellizzare le lotte e mettere le minoranze marginalizzate contro l’altra.

E le persone dislessiche hanno problemi a leggere lo Schwa (ə)?

Anche qui si parla di persone dislessiche come se fossero una cosa sola. Nessuno pensa alle persone dislessiche e non binarie. E poi non tutti i dislessici hanno problemi di Schwa (ə): pensiamo al La Pina Dj è dislessica e non ha problemi. C’è una variabilità molto ampia. Secondo me è sbagliato parlato di  dislessici contro ecc. Lo Schwa (ə) provoca evidentemente problemi di lettura a chi ha problemi di lettura, anziani, miopi.

Non mi dica che anche lei ha problemi?

Certo, sono miope. Ho problemi come posso averli con l’ungherese. Devo aguzzare la vista. Allo stesso modo persone dislessiche o neuro-atipiche. Conosco persone che hanno reazione di nausea ma anche di fronte a un asterisco. Quindi non è problema dei dislessici.

Esiste una soluzione universale che accontenti tutte e tutti?

No. Ma ricordiamoci che metterci gli uni contro gli altri e l’interesse di chi è a potere.

In sintesi: non è riforma, non è provocazione. Cos’è?

È un segnale. Ha una forte valenza simbolica di rendere visibile l’esistenza di un gruppo di persone che oggi fuori dalle comunità queer si sente emarginato.

Questa lotta al linguaggio inclusivo ogni tanto somiglia più a una fossa di leoni: pensa che intellettuali, linguisti non l’abbiano capita?

C’è un problema grosso di riconoscimento delle persone che escono dal diformismo sessuale. Lo diceva a Sherocco Festival Lorenzo Bernini: è qualcosa che mette in crisi la maglia base della nostra società perché oltre la specificità dei ruoli c’è anche l’effetto collaterale della famiglia naturale. L’etero cis è più comune. Fino ad oggi si è sempre detto quelle etero cis sono soggettività normali mentre le altre sono malate (omosessualità, non binarismo, genere non conforme), nel momento in cui dici che non è così si mette in crisi un sistema che medicalizza ciò che non è normale.

schwa linguaggio inclusivo
L’Accademia della Crusca respinge schwa (ə) e asterisco (*), ma noi dobbiamo andare oltre >> >

 

Lei ha sempre frequentato la comunità Lgbt?

Non troppo. Quella femminista intersezionale dove trovavi persone queer. Non sono mai stata parte del femminismo biologico. Sono arrivata tardi. E ho beccato la terza ondata.

Qui a Sherocco è stata travolta da persone che le chiedevano una foto, un abbraccio, un consiglio. Durante la sua lezione c’è stata chi si è confessata, raccontata. È diventata un’alleata molto apprezzata e la gente da lei vuole sapere di più. Lei invece cosa ha imparato da questa comunità?

Tante cose che davo per scontate. Io vengo da una educazione dove il massimo della trasgressione era essere gay. Non avevo idea. Ho quasi 50 anni nel mio contesto anche la persona transgender è solo quella che vuole diventare dell’altro sesso. Non avevo idea che ci fosse altre combinazioni o che una persona potesse decidere di fermarsi nel mezzo e non terminare la transizione. Ma ho un approccio molto laico non credo di avere nulla da conservare. Mi sono sempre fatta domande sulle discriminazioni che ho incontrato. Ho sentito fortemente la necessità di affiancarmi a questa comunità. in generale della diversità. Diciamo che quella che ho più vicino è quella di genere poi c’è anche quella dei corpi non conformi ecc. Ma quella domanda di quella persona non binaria ha scatenato dentro di me un mondo di riflessioni e tra queste: perché ho più diritto di essere felice più di altre persone?

Ha studiato tanto nella sua vita. Le dispiace essere associata esclusivamente allo Schwa (ə)?

Da una parte è frustrante. Viviamo in un’era che ha bisogno di eroi e anti-eroi, sono diventata il santino per certe persone e per altre l’anticristo.

E lei cosa si sente? Santino o anti-cristo?

Nessuno. Ripeto: ho visione molto laica della questione. E infatti non dico applicate lo Schwa (ə) in ogni dove. È un esperimento, un badge che può essere usato in certi contesti. Però non lo metterei mai in un documento ufficiale di un Comune.

Interessante e lo metterebbe nell’articolo di un quotidiano?

Se non è nella cronaca, ma è nel fondo di un editoriale. Poi se parlo in un articolo di cronaca di una persona gender non conforming non avrei alcun problema. Non a caso la mia prima strategia è quella di trovare locuzione semanticamente neutre, come persone.

Lei come è arrivata al femminismo intersezionale?

Sono stata una ragazzina privilegiata. Ho dovuto sbattere la testa nel muro del cemento del patriarcato per arrivare qui. Mi sono resa conto che facevo parte di un sistema che discriminava le donne nell’ambito accademico. Ci si aspettava il doppio dello sforzo, e poi episodi specifici di pressione estetica: tutte le volte che arrivavo in ufficio dicevano cose come oggi stai bene, stai male, oggi sei più trombabile. E questo mi ha portato a chiedermi perché. Ma anche sui social: una dopo un passaggio in tv uno sconosciuto mi ha scritto: vedo con piacere che hai seguito i miei consigli e ti sei messa una donna più corta. Non ho idea di chi fosse. Sono un’ex anoressica che ha sempre vissuto male il proprio corpo e questa cosa acuiva una tendenza, non vivere bene nella mia pelle.

Questo passato di resistenza al dolore forse può averla avvicinata alla comunità Lgbt. Forse è lì la sintonia che prova.

Il non essere a proprio agio nel proprio corpo, sicuramente. Un corpo che diventa campo di battaglia ma anche rivendicazione politica. Quindi c’è stato un momento in cui ho capito che il corpo doveva essere queste due cose.  Il luogo attraverso il quale passa la ridefinizione del sé dentro la società. Così mi sono avvicinata alle comunità queer.

Perché è importante nominare dentro questo tempo?

La lingua rende tutto visibile. Tutto si può discutere quando nomini, poi puoi mettere a fuoco alcuni aspetti della realtà. Come prima operazione dovremmo iniziare a curare le parole, prenderci il potere della parole, nominarle, usare le parole giuste, incazzarci quando i media mainstream non usano le parole giuste come nel caso di Cloe Bianco. È un potere che abbiamo tuttə. Poi credo che l’umanità proceda a ondate ci sono momenti di allargamento e di gamberismo, in cui si si arrocca ma l’arrocco è un segnale che le basi stanno cedendo. Guardi quanta paura c’è delle parole, quanta attenzione verso chi si occupa delle parole. Anche si occupa di me, delle mai persona. Sono solo una ricercatrice di tipo A scalza e nuda. Non sono mai diventata ricca con i miei libri, eppure

Eppure è un simbolo. Alla fine, diciamo è un santino ed è l’anti-cristo. Le fa piacere?

Mi fa piacere per le persone a cui può mostrare una via

Se lo aspettava? 

No, mi sono sempre occupata di parti liminali della lingua, comunità virtuali, marginalizzate. Quindi quando mi hanno raccontato dei loro usi interni, ad esempio il reclaming delle persone connotate negativamente, ho pensato: figo voglio studiarlo. Ho sempre avuto questo atteggiamento di curiosità nei confronti di quello che si può fare quando non si ha il potere sociale, ma se ne conserva uno di azione linguistica, quando si è ai margini.

schwa
Schwa e la richiesta di un linguaggio inclusivo: provocazione o riforma? >> >

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