Qualcosa che ho capito sullo schwa è che suona come campanello d’allarme.
In generale, porsi da un estremo o l’altro della barricata – che sia cieco entusiasmo o ira funesta, senza nessuna pausa di riflessione – può nascondere parecchi lati d’ombra.
Da entrambi i lati, lo schwa genera lagne che si ripetono: i detrattori sbattono i piedi, parlano di pericolanti derive, difendendo con le lacrime agli occhi l’ intoccabile, immacolata, splendida e insopportabile lingua italiana.
L’ultimo della fila è Massimo Arcangeli, professore linguista dell’Università di Cagliari, che ha lanciato una petizione su Change.org dal nome “Lo schwa? No, grazie. Pro lingua nostra”. Il linguista la definisce una scelta modaiola, imposizione dei fricchettoni “intenzionata ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell’inclusività“, un affronto al latino classico dove non esisteva pictrix (pittrice) ma solo pictor (pittore) e nessuno si lamentava.
Arcangeli ha solo aggiunto carburante al carrozzone: “I segni grafici di cui parliamo non hanno un corrispettivo nel parlato. E qualunque lingua è in primo luogo una lingua parlata. Lo schwa che resa può avere? Nessuna” dice il linguista Luca Seriani, seguito da Francesco Sabatini che parla di un “rovesciamento della lingua creato artificialmente, per motivazioni estranee” e soprattutto “dall’alto“.
Perché all’estremo opposto, lo schwa è anche una posa, l’invenzione dei radical chic con l’asterisco che mettono i pronomi nella bio di Instagram, arma dei social media justice a cui non si può dire più niente pena la cancellazione virtuale e sociale da qualunque piattaforma.
La schwa è la nicchia che si sente superiore, più intelligente, reazionaria e anticonformista.
Ma cosa può e non può fare la schwa nel concreto?
Secondo l’Accademia della Crusca possiamo utilizzarla in comunicazioni scritte o trasmesse destinate ad una lettura silenziosa e privata, ma non in testi di legge, avvisi, o comunicazioni pubbliche che richiederebbero una comprensione immediata e rapida da più fasce di utenti.
Non è riproponibile nel corsivo scritto a mano o nel maiuscolo.
Nel parlato la schwa si pronuncia come una vocale intermedia, che la Crusca riconduce ad alcuni dialetti italiani che non pronunciano la vocale finale, senza collocare la parola a nessun genere specifico.
“C’è in abruzzese, se vogliono, ma in italiano non c’è” scrive sempre Sabatini.
Ed è qui che sorge spontaneo chiedersi di quale imposizione elitaria stiamo parlando: quella dell’anticonformista modaiolo o del linguista intellettuale che reclama un italiano corretto e ti crocifigge su pubblica piazza se scrivi “a me mi“?
Non c’è ombra di dubbio che lo schwa non sia sempre applicabile e occasionalmente fastidioso.
Prepararsi con il fucile puntato contro ogni testo scritto che non rovescia il fonema accusandolo di scarsa inclusività non è meno controproducente di chi mette su petizioni parlando di “bullismo baritonale”.
Lo schwa dà fastidio, e proprio per questo necessario.
Perché la nostra immacolata lingua è in costante evoluzione – dal 1828 di Giacomo Leopardi fino ai post delle attiviste su Instagram – seguendo un mutamento continuo dettato, anche e soprattutto, dal contesto storico e sociale, dalle identità che si decostruiscono e rimodellano da capo, di generazione in generazione.
Questa piccola vocale si intromette nella nostra quotidianità e stona con le abitudini, indispettendo l’occhio che ancora non riesce a collocarla e il parlato che non sa come pronunciarla (è la u inglese, la vocale francese che non è né la “e” chiusa né la “e” aperta, è il dialetto del centro sud).
Antipatica o simpatica, si fa subito riconoscere e ci costringe a porci due domande: a cosa serve e perché?
Che generino sterile indignazione o sincera curiosità, queste domande sfidano le nostre certezze, come l’invariabilità della lingua italiana o il fatto che esistiamo in una sola forma: le regole grammaticali che abbiamo studiato a scuola, insieme ai codici del sistema binario o di una società eteronormata, rassicurano perché confermano uno schema a cui attenerci che non ci tradirà mai.
Al contrario, lo schwa, con la sua indisponente imperfezione, ci ricorda che anche la lingua, come maschile e femminile, non è unica e universale.
L’imposizione a cui alludono Arcangeli e tutta la schiera di esagitati, non esiste davvero (e chi la reclama, è altrettanto fuori focus).
Lo schwa, al massimo, è un’opzione, una possibile alternativa, cacofonica o brillante sceglietelo voi.
La bellissima musicalità della lingua italiana è ancora abbastanza predominante da scansare qualunque congiura linguistica.
Siamo ancora liberi di parlare e scrivere come pare a noi, di guardare Via col Vento, preferire una relazione monogama, anche utilizzare slur razzisti e omobitransfobici con tutte le conseguenze del caso. Incazzarsi come una iena per lo schwa non è poi così distante da chi si indigna perché non può più dire fr*cio in prima serata o per una conduttrice en travesti sul palco dell’Ariston?
Perché l’indignazione non risiede davvero nella lingua italiana – già di per sé avvolta in neologismi e prestiti anglofoni sempre più parte del linguaggio comune – quanto nelle istanze che lo schwa va a rappresentare.
La sua sola presenza costringe a spostare lo sguardo altrove, riporta attenzione a quelle “motivazioni esterne” che ci piace dimenticare per strada ma prendono sempre più spazio, assillando un sistema che sedeva molto più comodo quando le minoranze non fiatavano.
A rivoltarsi, tre volte su quattro, è sempre quella classe predominante, così abituata a sentenziare senza disturbo, che basta un piccolo fonema per agitarsi e attivare l’allarme anti-incendio.
Perché se la lingua italiana rimane ferma, stesso non si può dire per la vivacità del pensiero, costretto a confrontarsi con diversi spunti di riflessione e nuove generazioni che sfidano ogni barriera espressiva.
La schwa ci invita a sollecitare la nostra mente o tenerla ferma allo stesso identico punto.
Al costo di risultare irrilevante.
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